Lungo ritorno, caos, lunga notte degli ostaggi. I titoli sul rientro difficile di Calcagno e Pollicardo – i corpi di Failla e Piano restano per ora a Samatra – esprimono tutto l’imbarazzo della stampa sul pasticcio Libia. In che guaio ci stavamo per cacciare? E il pericolo è davvero scongiurato oppure alla fine andremo in Libia, sia pure in ritardo, correndo tutti i rischi del caso e senza neppure poter contare su un dividendo per tale avventura? Il direttore della Stampa, Molinari, pensa che invieremo comunque “truppe speciali, guidate dall’intelligence” e ricorda come questo sia possibile solo in base “alle norme (già) approvate dal Parlamento” (sulle missioni all’estero) e ai “conseguenti decreti di attivazione da parte della presidenza del consiglio”. Paolo Mieli auspica invece “che le cose vengano chiamate con il loro nome e che la missione venga definita come tale, senza neologismi eufemistici”. Poi si chiede se l’occidente riuscirà a evitare un’altra debacle (come quelle in Iraq e per deporre Gheddafi), se andremo “nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto, infine se esiste “un’idea condivisa di quale debba essere la meta di questo tragitto da compiere in armi. La divisione della Libia in tre o quattro Stati?” Buio pesto. Intanto Renzi accusa i giornali di aver già messo “scarponi ed elmetto” e promette “prudenza, equilibrio, buonsenso”. Speriamo.
La verità, vi prego, sui numeri. La chiede, con tono accorato, proprio il presidente del Consiglio che su Facebook spiega come il PIL sia cresciuto con lui dello 0,8% mentre con Monti era caduto del 2,3 e con Letta dell’1,9, come il deficit sia stato riportato dal 3 al 2,6% e infine come i contratti a tempo indeterminato siano aumentati nel 2015 di 764mila unità. Si tratta di dati molto meno buoni di quelli che avrebbero potuto vantare i governi di destra della Spagna e dell’Irlanda, pure rovesciati da un voto democratico. Zero virgola di cui il governo si vanta ogni giorno. E non basta perché i numeri del governo sono contrastatissimi da quasi tutti gli esperti. Lo 0,751 (arrotondato a o,8%) di aumento del PIL, per esempio, scende a 0,649% (arrotondato allo 0,6) se depurato dai tre giorni di lavoro in più che cadevano nel 2015 e che valgono appunto lo 0,1%. Quanto ai posti di lavoro stabili, il saldo tra assunzioni e cessazioni è in realtà – lo ha spiegato bene Ricolfi – di 186mila unità. Resta quel piccolo incremento dell’occupazione a gennaio 2016 che fa sperare – per ora solo sperare – che la dinamica positiva non sia stata unicamente legata alla decontribuzione che il governo aveva concesso agli imprenditori nel 2015. Troppo poco. Oggi, inoltre, ancora Ricolfi pone sul Sole24Ore il problema della produttività che in Italia continua a non crescere. Mentre De Benedetti, sullo stesso giornale, lancia l’allarme per la deflazione, che sommata alla stagnazione – scrive – rappresenta una vera trappola per l’Italia. Questa volta i gufi sono il giornale di Confindustria e l’editore di Repubblica, Stampa, Secolo XIX. Come la mettiamo?
Maria Elena Boschi risponde a De Bortoli, il cui articolo sulle riforme avevo segnalato con il Caffè di ieri. Scrive che le riforme del governo servono “a colmare il fossato tra eletti e cittadini” in quanto renderanno “la politica più chiara e semplice, e soprattutto decidente”. Più che argomentare la Boschi enuncia, annuncia e promette: vi prego di leggere il testo, se pensate che io possa essere prevenuto. Gustavo Zagrebelsky, spiega invece sul Fatto perché votare No al referendum costituzionale. Si tratta di un testo lungo e argomentato: 15 risposte polemiche al governo. Mi limito a citare qui le prime 3. Dice Renzi che le riforme si aspettavano da venti, trenta o settanta anni: il costituzionalista mette in fila i nomi di quelli che si sono battuti per modifiche radicali alla Costituzione, da Pacciardi e Sogno, ai golpisti De Lorenzo e Iunio Valerio Borghese, a Licio Gelli. Che bella compagnia. Diranno ce lo chiede l’Europa. Zagrebelsky risponde con una domanda: quale Europa, quella delle banche d’affari internazionali che vogliono governi forti e parlamenti deboli? Diranno che le riforme serviranno alla governabilità. In Italia sono mancate piuttosto “idee, progetti politici in grado di suscitare consenso, partecipazione, sostegno”. É mancato il governo non la governabilità.