Non lasciamoli bighellonare, mettiamoli al lavoro. Togliamo ai richiedenti asilo il diritto di ricorrere in appello. Corriere e Repubblica danno ciascuno – sia pure con titoli meno espliciti di quelli che propongo – la loro propria ricetta per parare l’emergenza profughi che crescerà nei prossimi mesi. Innanzitutto perché crescerà? Perché non potremo più chiudere gli occhi, per scelta o incapacità, e aspettare che il grosso dei profughi si trasferisca (illegalmente) dove voleva andare, cioè nel nord europa. Le vie – l’abbiamo visto a Ventimiglia e al Brennero – saranno se non bloccate controllate. Possiamo, dunque, chiedere loro di lavorare (e quindi pagarsi il soggiorno) mentre sono in attesa del giudizio sul loro diritto d’asilo o sulla espulsione. Si possiamo chiederlo, i comuni che li accolgono possono organizzarsi in tal senso. Ma sarebbe necessario che si trattasse di lavori davvero utili e che si spiegasse bene ai “nativi” come si tratti di lavori per i quali loro non sono disponibili. Possiamo rendere più veloce l’istruttoria giudiziaria che riguarda i profughi? Certo che sì. Lo chiedono tutti quelli che sono venuti per restare, o che non sanno dove altro andare. Ed è vero anche che il diritto d’appello sembra spesso in Italia un modo per rendere più lungo e macchinoso il giudizio. Ho tuttavia forti dubbi che si possa negare a un siriano un diritto che si riconosce a un lombardo. Infine c’è un problema, anzi il problema. Il diritto d’asilo non spetta a chi fugge la fame. Così molti migranti rifiutano di dire le loro generalità. Non si sa chi sono, non si può metterli al lavoro né espellerli, giacché non è noto dove rimpatriarli. Che fare? Si potrebbe, in teoria, dare a ogni migrante un periodo di prova, un permesso con data di scadenza in cambio delle loro generalità. Dopo, o dentro o fuori, con un giudizio che tenga conto anche del loro desiderio e della loro capacità di integrarsi. Ci vogliono soldi, per questo. Senza investire nell’accoglienza non se ne esce. Lo sanno tutti e tutti sanno che l’Europa si nasconde.
Burkini sì, burkini no. Per il sì, Chiara Saraceno (Repubblica), monsignor Galantino (Corriere), Fernanda Contri (Stampa). Per il no, Paolo Flores (Repubblica), Daniela Santanchè (Stampa). Per il “ni”, Tahar Ben Jelloun (Repubblica). A me appare chiarissimo che portarsi in spiaggia (o entrare nel bagnasciuga) completamente vestite, tra corpi che non nascondono nulla, rappresenti una sfida. Da parte della donna che abbia scelto quel costume, o dell’uomo che glielo abbia imposto, significa dire: “siamo diversi, rifiutiamo il vostro modo di essere”. Ma il nostro, più autentico, modo di essere è proprio la libertà di essere come ci pare. Ora, quando in Francia – presidente Chirac – si scelse la proibizione del velo integrale, si spiegò che ognuno dovesse essere riconoscibile quando entra in un pubblico ufficio: dunque a volto scoperto. Si disse anche che quel velo integrale, a scuola, significava ostentare un simbolo in qualche modo religioso, proibiamolo così come non consentiamo di indossare a scuola una grossa croce al petto. Ma il burkini scopre (almeno) il volto, la persona dunque si riconosce, né possiamo impedire ai testimoni di Geova di far propaganda sul litorale. Allora? Siamo in guerra, si dice, quel simbolo “islamico” rappresenta una forma vistosa di propaganda per la parte avversa. Questo è esattamente quello che desiderano i fondamentalisti wahhabiti e salafiti: conquistare l’autentica rappresentanza dell’islam usando l’umiliazione del corpo della donna come bandiera. Ho già detto che la prima impresa di Al Wahhab nella sua città natale fu di far lapidare una donna “infedele”. Per questo fu cacciato dai “maomettami” per esser poi riportato dentro dalle armi di Al Saud, fondatore della dinastia che regna sull’Arabia. Penso che se fossimo in grado di tenere ferma la rotta: ogni umiliazione al corpo della donna è umiliazione dell’umanità dell’uomo – o, se si crede in un dio, al divino che è nell’uomo -, ma al tempo stesso se sapessimo tollerare ogni moda (che non crei un pericolo diretto per un altro uomo), se questo fossimo in grado di fare, non escludo che persino il burkini possa divenire un po’ più elegante, far intuire la femminilità di chi lo indossa, e rappresentare un pericolo – o l’inizio di una lezione – per quell’animale – di sesso maschile – che cammina due metri davanti alla donna, scoperto e con in testa un cappellino dalla visiera all’indietro. Mi sbaglio? Possibile.
La manovra cresce a 30 miliardi, scrive La Stampa. I conti non tornano: dalle privatizzazioni sono entrati quest’anno 800 milioni anziché 8 miliardi. Anche ammesso che vada molto bene (per l’erario) la vendita del 30% delle poste, mancheranno 5 miliardi. Il vice ministro Morando – un migliorista che tiene a non dire cavolate – spiega (a Renzi) che solo una ripresa del 2% potrebbe trarci d’impaccio. Quella prevista è dell’0,7%. Ferruccio De Bortoli ricorda che il prodotto interno lordo ha perso 28 punti rispetto al 2008. Rispetto alla stessa data, la produzione industriale è caduta del 20%. L’ex direttore del Corriere osserva che gli industriali “non sembrano così impegnati nel ridurre i sussidi pubblici alle imprese che distorcono la concorrenza. Non suscita alcun sincero dibattito la scelta di chi trasferisce sede legale e fiscale all’estero pur continuando a sventolare la propria italianità. Non vi è, tranne rari casi, una discussione meno rituale sul modello industriale del futuro”. Un modo per avvertire che le mance indiscriminate di Renzi sono dannose anche per il sistema industriale.