281 morti accertati, 15 dispersi, 43 vittime ancora senza nome, 2.500 sfollati. Corriere e Stampa aprono con il bilancio, amarissimo, del terremoto. Repubblica e il Fatto denunciano le responsabilità, quelle che già si vedono. “L’accusa del procuratore, palazzi con più sabbia che cemento”, è infatti il titolo del giornale diretto da Mario Calabresi. “La scuola crollata: quei lavori sballati puzzano di mafia”, questa invece la scelta di Marco Travaglio. Oggi i primi funerali di stato, con Mattarella e Renzi. Poi gli impegni, le promesse, il timore che vengano disattesi, come troppe volte è successo in passato.
Burkini no. In Francia il Consiglio di Stato si è pronunciato contro il divieto, considerandolo lesivo delle libertà fondamentali. Poteva fare altrimenti? Certo che no. Si poteva impedire, in nome della läicité – che poi significa netta separazione tra cittadinanza e fede – che persone con indosso il burka, dunque travisate e non riconoscibili, entrassero in un pubblico ufficio. Si poteva vietare nella scuola pubblica ogni clamorosa ostensione della propria appartenenza religiosa: il velo integrale come la kippah in classe o un grosso crocifisso al petto. Ma non obbligare una donna a fare il bagno in bikini o a non farlo. Era solo una stolta polemica estiva e mi ha sorpreso che il primo ministro francese, Manuel Valls, per lucrare qualche consenso, l’abbia confortata. “Ma oggi il velo è un gesto politico”, dice Azar Nafisi, intervistata dal Corriere. È una sfida, alla quale però bisogna rispondere, dice bene la scrittrice iraniana, costruendo “spazi pubblici di dibattito e spazi dove possa rifugiarsi chi entri in contrasto con le famiglie”. Politica non divieti.
L’ANPI per il No, il Pd per il Sì. Si terrà forse il 10 settembre, alla festa di Bologna, il faccia a faccia tra il presidente Smuraglia e il segretario Renzi. Al di là del voto referendario – a proposito, quando andremo alle urne? – si confronteranno due modi di raccontare la storia d’Italia. Quello di un signore che ricorda la scomunica papale dei comunisti, il boom e le politiche criminali di “sviluppo” della borghesia rampante negli anni 60, la conventio ad excludendum che ha piegato per ragioni politiche il dettato costituzionale. E la narrazione di chi vede invece nel passato una scia indistinta di errori, le cui colpe sono semmai in primo luogo delle sinistre, dei diritti che si andavano acquisendo divenendo così tabù, delle conquiste sindacali che avrebbero depresso la “produttività”. Ora che è arrivato il rottamatore, è venuto il tempo di riscrivere memoria e costituzione. Viva! Gridano in coro le truppe che sostengono il premier, feroci nell’insulto ai dissidenti più di quanto non si siano mai mostrati né berlusconiani né grillini. Ora si cambia, ora finalmente si fa. Non importa cosa si stia facendo, l’importante è che si faccia. Non importa come, perché si fa come si può.
Pierluigi Bersani continua a dire che Renzi “fa ammuina”: non chiarisce, cioè, se e come vorrà cambiare l’Italicum. È una denuncia anacronistica quella dell’ex segretario dell’ex Pd. A Renzi interessa costruire il Partito di Renzi, Partito del Premier e del Governo. Interessa alzare un Vallo di Adriano: di qui noi, che facciamo e quindi amiamo l’Italia, dall’altro quelli che discutono del passato e quindi non fanno e non amano che se stessi. La “minoranza” tratta una mutazione ormai antropologica, come una normale questione da discutere tra simili nello stesso partito!
Rien ne va plus. Ma purtroppo discutere si deve. Ragionare del passato è più che mai necessario. Perché la ripresa salvifica – ormai è chiaro – non verrà. E molti commentatori cominciano a vedere come tutte le armi delle potenti banche centrali appaiano ormai spuntate. La Yellen per ora non lo fa, ma forse aumenterà i tassi della Fed. E allora? Fino a quando Draghi potrà continuare con il Quantitative Easing? Mario Deaglio cita proprio il presidente della BCE: “la politica monetaria può assicurare la stabilità dei prezzi, ma da sola non può rendere durevolmente prospera un’economia”. Significa, spiega Deaglio per la Stampa, che “la palla sta tornando ai governi e alle imprese. Solo se la sapranno raccogliere, esprimendo programmi «forti», le possibilità di uscire dalla quasi-stagnazione attuale diverranno davvero reali”.