51 anni fa il presidente del consiglio era Moro, il vice Nenni, Fanfani agli esteri e Saragat presidente della Repubblica. Agnelli AD della Fiat, con ancora Valletta a fargli da tutore, e Carli governatore della banca d’Italia. Il 15 agosto 1965 il Corriere titolava “18 morti e centinaia di feriti per la furia negra a Los Angeles”. Le grandi città, Roma e Milano, erano deserte, perché il tempo della vacanza era allora più nettamente separato da quello del lavoro. E il non lavoro, legato all’uso dell’auto privata (e comprata a rate), all’acquisto del bikini, alla voglia di mangiare con amici e parenti in trattoria, di possedere o di affittare una casa al mare, sembrava la carta d’identità dell’uomo nuovo, non più contadino o impiegato o studente, ma consumatore. È in quel tempo lontano, favoloso per i nostri figli e per i nipoti, che affonda – io credo – l’anomalia italiana. La quale alla fine consiste nella incapacità dei governi di governare, dicendo con chiarezza quel che si vorrebbe fare e facendolo davvero.
Il 15 agosto del 1965 il centro sinistra discuteva di riforme importanti: da certe nazionalizzazioni, alla trasformazione della scuola e della sanità, dall’introduzione dei primi piani regolatori alla riforma del mercato del lavoro per correggere la sperequazione tra nord e sud e limitare morti bianche e infortuni. Il blocco venne da destra, con il rumore di sciabole che il generale De Lorenzo fece intendere ai socialisti, con la vecchia rendita, divenuta palazzina, che non tollerava controlli di legalità, con la persistente struttura fascista dell’apparato statale che aveva in odio qualsivoglia modernizzazione. Il Partito Comunista Italiano funzionava da limite esterno: indicava il punto oltre il quale il riformismo di Moro non poteva spingersi. D’altra parte era il tempo in cui gli Stati Uniti si infognavano nella crociata anti comunista del Vietnam, la Cia favoriva in Indonesia la cacciata di Sukarno (con un milione di morti, i comunisti e tutte le loro famiglie, fino ai cugini secondi), in Grecia si preparava il colpo di stato dei colonnelli. Ma l’Italia sembrava senza pensieri. I contadini mandavano i figli all’università, se non proprio per farne matematici o medici, almeno insegnanti o maestre (via magistrale e magistero). In piazza, nei paesi del sud, si teneva la chiama per la tratta del lavoro, verso Torino o la Germania. Dopotutto poteva sembrare conveniente non far nulla e attendere. Così, da allora, i governi hanno imparato a non governare, ma a sopire, rinviare e barattare con chiunque, dall’ombra, avesse il potere di ricattarli: servizi segreti in ambito atlantico, Gladio, mafia, Boia chi molla, loggia P2. Fino a quando, con la trionfale vittoria dell’occidente capitalista sull’orso russo cattivo e comunista (1989-991), il ricatto è divenuto esplicito e perfettamente legale. Il vincolo che consiglia ai governi di non governare ora viene da poteri forti, dalla comunità internazionale, dal mercato.
Titolo per, commento contro. “L’Italia alla UE, serve flessibilità per 10 miliardi”. È il titolo forte di Repubblica in prima pagina. Già a pagina 6 si scopre però che questi 10 miliardi serviranno appena a mantenere le promesse sull’Ires e quelle sulle pensioni. Come ieri avevo anticipato, non ne resta per il taglio dell’Irpef né per la povertà. Ma il bello si scopre leggendo il commento di Alessando de Nicola, richiamo in prima e articolo a pagina 31. Dietro il titolo asettico “la non crescita e la cura espansiva”, De Nicola osserva che: 1) negli ultimi tre anni (2013, 2014,2015) la spesa pubblica non è diminuita, anzi è cresciuta, 2) il debito pubblico è cresciuto fino a toccare il 132,7% del PIL; 3) il combinato di questi due dati può “influenzare in senso negativo la percezione circa la sostenibilità del debito”, come ammette il MEF, ministero economia e finanze. Conclusioni di De Nicola: non abbiamo le carte per attribuire alle politiche di austerità i guasti della non crescita e rischiamo di peggiorare lo stato già precario della nostra economia. Il problema, dunque, è altrove. Dove? Nel non governo dell’economia. Renzi ha puntato sull’effetto psicologico di alcune sue scelte (o se volete, di certe sue parole), dagli 80 euro, all’abolizione dell’articolo 18, agli incentivi alle imprese, all’abolizione dell’Imu. Ma ha avuto torto. Perché, purtroppo, la ripresa non è più in occidente capace di creare ottimismo, voglia di spendere e assumere. Perché troppo forte è in Italia la rendita parassitaria (mafie, evasione, corruzione) e troppo grande la palude industriale (quasi metà delle imprese vive del mercato interno, di aiuti e appalti pubblici).
Cosa si dovrebbe fare di diverso? Il Fatto ha sentito 4 esperti. Mario Seminerio: invece di dare “mance” a destra e a manca, il governo Renzi avrebbe dovuto “ridurre ulteriormente l’Irap sulle imprese e abbassare di un punto l’Irpef, che nello scaglione tra 15mila e 28mila euro è una tassa depredatrice”. Emanuele Felice: “riforma della giustizia e della pubblica amministrazione – Renzi lascia le cose a metà – Lasciamo scattare l’aumento dell’Iva (clausola europea di salvaguardia), e destiniamo le risorse a investimenti e tagli delle tasse sulle imprese”. Vladimiro Giacchè: “c’è una crisi di fiducia legata alle banche”…nazionalizziamo quelle che vanno nazionalizzate, invece di “bruciare 50 miliardi di capitalizzazione in borsa”. Franco Mostacci: “ lotta a corruzione ed evasione: se manca quella la spesa pubblica si spreca. E ridurre le diseguaglianze di reddito: trovare i soldi da redistribuire ai poveri, che li spendono… In termini di tasse, incidere sui patrimoni più che sui redditi, se no si deprimono ulteriormente i consumi”. Non tutte le proposte mi convincono né mi paiono tutte realizzabili ma danno la dimensione della distanza tra le parole (che vorrebbero essere rassicuranti) del governo Renzi e la realtà dei dati e delle prospettive. Buon ferragosto.