Il grande gelo, duello, resa dei conti. L’attacco ruvido di Juncker a Renzi e la replica, dopo qualche ora, del premier è il titolo forte di ogni giornale. “Ritengo – ha detto ieri Juncker – che il primo ministro italiano abbia torto a vilipendere la commissione a ogni occasione”. Poi ha aggiunto: “sono stato io a introdurre la flessibilità non lui” e ha annunciato un suo prossimo viaggio in Italia perché oggi “i rapporti con Roma non sono ottimali”. Strigliata prevedibile ma durissima che ha preoccupato Padoan: “Non intendevamo offendere. Evidente che la flessibilità l’ha introdotta la Commissione ma grazie al dibattito nel semestre italiano”. Fredda ed equidistante Federica Mogherini: “É stupido creare delle divisioni all’interno dell’Europa. Gli europei hanno bisogno di stare uniti”. Solo in serata Renzi recupera il suo spirito guascone: quello di Juncker – dice – “è il ruggito di un uomo debole”. Poi ai retroscenisti: “La tattica funziona. Li sto sfinendo con i miei richiami. La battaglia sull’austerità alla fine la vinceremo”. Ma su Repubblica, “La solitudine di Roma e il tornaconto elettorale”, Stefano Folli prevede un prossimo passo indietro proprio da Palazzo Chigi. “Rammendare la tela strappata – scrive – è interesse comune, come nota Federica Mogherini. Ma chi deve fare il primo passo è il governo italiano. Non accadrà subito”.
Petrolio sotto i 29 dollari, venerdì nero per le borse, così il Sole24Ore. C’è poco da dire: “Milano perde il 3,07%, crolla Mosca (-5,775), Wall Street giù del 2,16%”. Con il petrolio vanno giù i prezzi delle materie prime e soffrono i paesi emergenti. Stagnano i prezzi e questo, in Europa e in America, raffredda la ripresa. L’economia della Cina rallenta, i dati della produzione americana sono sempre in altalena. Il cavallo non beve o beve poco. L’industria dell’auto, principale protagonista della ripresina italiana nel 2015, fa i conti con lo scandalo delle emissioni (Renault dopo volkswagen) e con i costi alti, per un ceto medio più povero, delle utilitarie. Insomma, un nuovo ciclo possente, positivo, che crei ricchezza e la distribuisca, non è affatto all’orizzonte. Con buona pace degli ottimismi di maniera.
Da Pannella fino a Renzi, via Rutelli. É la storia di Roberto Giachetti, candidato alla candidatura come sindaco di Roma. Protagonista, la scorsa legislatura, di uno sciopero della fame contro l’incostituzionale porcellum, chiamato poi alla vice presidenza della camera, si è mostrato inflessibile con i grillini, irridente con SEL, fino a trasformarsi nel difensore acritico di una legge parimenti incostituzionale, l’italicum, e della sgangherata riforma del Senato. Davvero Renzi spera che i romani lo eleggano sindaco? Sbaglierò, ma non ci credo. Forse il premier – che di politica è tutt’altro che digiuno – spera che si faccia avanti un altro guerriero (Tocci?), uno che sconfigga Giachetti alle primarie e così lavi il ricordo degli errori, delle contaminazioni e della spocchia del Pd romano, per poi presentarsi al voto con qualche possibilità di successo. Nel frattempo Fassina si frega le mani. Se Giachetti è il Pd, ecco la prova che non avrebbe avuto senso cercare un candidato comune del cento sinistra: meglio contarsi nel voto che nelle primarie. E Marchini potrà vantarsi di non avere un partito dietro.
La mia Turchia infelice perde la democrazia, dice Elif Shafak a Repubblica. Solo ieri Erdogan ha fatto arrestare 27 professori universitari rei di aver detto che la questione curda non si può risolvere con una spietata repressione armata. Ferito al cuore dai demoni con cui aveva giocato (l’attacco a Istanbul del Daesh), umiliato dalla Russia e difeso con qualche imbarazzo dalla Nato, il sultano chiude le bocche di intellettuali e giornalisti, mostra la faccia feroce, minaccia di fare ai curdi quello che i giovani turchi fecero agli armeni un secolo fa.