L’Italia dello scampato disastro. Di questo parlano i giornali in edicola. In prima pagina la parola che ritorna è “sfollati”, ma poi si aggiungono altri titoli: “Scosse e nessuna vittima”, “Strage evitata”. La scossa dell’altro ieri, quella delle 21,18 a Ussita – scrive Corrado Zunino per Repubblica – è stata di potenza molto vicina all’altra che il 24 agosto causò così tanti lutti ad Amatrice: 5,9 della scala Richter contro 6. Ma è durata meno. Ed è una prima differenza. La seconda differenza è che ad Amatrice il terremoto aveva colpito a sorpresa e nella notte, a Ussita c’era stata invece una scossa “di avvertimento”, molto forte anch’essa, di magnitudo 5,4. Alle 21,18 erano già tutti per strada, storditi dallo spavento, infreddoliti sotto la pioggia, ma vivi. C’è però dell’altro: almeno un’ipotesi di lavoro. I lavori di manutenzione dopo i terremoti del 1979 e del 1997 sarebbero stati fatti più seriamente a Ussita che ad Amatrice. Dove erano stati posti tetti di cemento su pilastri troppo fragili – io ho visto questo già a L’Aquila -, e le catene di acciaio poste a protezione di alcuni edifici avrebbero tenuto.
Vivere sulla faglia. Pare che questa volta abbiamo capito – forse, e scusate se sembro cinico, perché non distratti dal numero delle vittime e dal pianto degli orfani – che la condizione di noi italiani è questa: viviamo sulla faglia – se ne può attivare una quando meno lo attendiamo – e sulla faglia abbiamo costruito case in pietra, certe vecchie di secoli, che sono la nostra storia, la nostra identità. Nel 1968 la risposta degli “architetti” fu: spostiamo i centri abitati, ricostruiamoli nuovi in zone meno a rischio. Fu un fallimento: ricordo quel paesone che doveva nascere nella valle del Belice, sulle terre di un certo barone, con gli abitanti di Partanna, di Santa Ninfa e di Ghibellina: ci andò un parroco, che con i soldi di Roma regalava qualche motorino ai ragazzini, nacque un edificio, era una casa d’appuntamenti, ma lì non sorse mai una città. Nè più successo hanno avuto le new town di Berlusconi a L’Aquila. Oggi si promette, invece, di ricostruire nei luoghi della storia e della tradizione. Se si può. Ora i geologi indicano la differenza tra i danni che può provocare il sisma se la terra si alza come a Ussita o si abbassa, ad Amatrice. E provano a proporre rimedi, idee per prevenire i disastri.
Far parlare fra loro le conoscenze, coinvolgere i cittadini nella ricostruzione dell’Italia. Di questo erano venuti a parlare a casa mia. giorni fa, il professor Massimo Pica Ciamarra, Wittfrida Mitterer, di Bio Architettura e un loro amico della Conferenza Episcopale Italiana. L’obiettivo? Un disegno di legge per programmare “la messa in sicurezza del territorio” innanzitutto facendo dialogare geologi, architetti, esperti energetici e disegnando (e aggiornando) mappe presso le città metropolitane, le province, le regioni, che raccontino questa nostra Italia. Bella e fragile. Ma non basta, s’era detto, serve coinvolgere i privati cittadini, i proprietari degli immobili. Affrontando, ad esempio, il nodo dell’abusivismo dimenticato, quella parte ingente del patrimonio edilizio per cui è stata presentata, ma non accettata una domanda di condono, lasciando così quella porzione di Italia in una zona di non diritto. Chiedendo ai privati di mettersi in regola, di usare – e rispettare – lo strumento del “fascicolo del fabbricato”. Pica Ciamarra la chiama, se non ricordo male, una “patrimoniale garbata”. Ma il vantaggio per chi coopera alla prevenzione, intanto, a casa propria, è di mettersi al riparo dai disastri e di ottenere, se arrivano comunque, il diritto al sostegno pubblico. Su queste cose stavamo ragionando. Ma ora, dopo lo shock del terremoto (senza morti), si può fare molto di più di quanto non avessi immaginato. Persino il modo – che a me pare strumentale – con cui Renzi e Padoan rispondono ai rilievi dell’Europa sulla finanziaria “voglio vedere se a Bruxelles continuano a girarsi dall’altra parte dopo il nuovo sisma”, ci offre la possibilità di prendere il governo e il premier in parola (e in castagna), di provare a costringerli, perché facciano finalmente quel che va fatto. Non più un disegno di legge, chiamiamolo di testimonianza, ma un progetto trasversale in grado di mordere, di cambiare le cose, di prevenire gli interventi speculativi e impedire che si versino lacrime di coccodrillo.
D’altra parte qualcosa si muove, nel mondo. Le elites, le classi dirigenti, le caste – se preferite – delle terze vie, si sentono più deboli e si aggrappano a chi, fino a ieri, detestavano. Tre esempi. La bella foto, che oggi campeggia sui giornali italiani, di Hillary Clinton che si stringe a Michelle Obama. La sta usando? Ci prova! Ma al tempo stesso capisce di aver bisogno dell’odiata Michelle (e di Sanders) per non apparire la donna delle corporation e degli apparati. Rajoy domani sarà di nuovo, dopo quasi un anno, alla guida di un governo parlamentare. Ma ieri si è contato: 170 voti, 6 meno di quelli che servono. La formazione del suo esecutivo dipenderà domani dall’astensione del Psoe, partito in crisi, che rischia la scissione. Rajoy lo sa e, per la prima volta, ha accennato alla possibilità di rivedere la sua riforma (renziana?) della scuola e perfino di aprire un dialogo con la Catalogna. Sia chiaro: penso che abbiano ragione Iglesias e Podemos quando accusano i socialisti di aver calato le brache. Ma la difficoltà di popolari e socialisti, non deve essere nascosta, può diventare occasione per contare, per fare politica. Terzo: Cuperlo (secondo Repubblica) avrebbe convinto la Commissione del Pd che discute sull’Italicum a rinunciare al doppio turno (quindi all’elezione diretta del premier) e a ridurre l’entità del premio di maggioranza da attribuire al partito o alla coalizione più votati. Anche qui, una promessa da marinaio – perché la legge si farebbe dopo il referendum -, largamente insufficiente – perché dopo aver smantellato il Senato, alla Camera si dovrebbe escludere un premio di maggioranza, un’operazione trasformista per far prevalere Sì. Noi voteremo No. E tuttavia, se mai Renzi accettasse di rivedere fino a tal punto le riforme che aveva creduto di poter imporre, beh questo sarebbe stato anche un nostro successo. La politica della sinistra va sostenuta con chiarezza adamantina, ma evitando il pessimismo di chi si sente puro e sconfitto, senza lamentarsi ma incidendo nella faglia che le contraddizioni aprono in campo avverso.
Aumenta il debito pensionistico di 20 miliardi. Raccomando vivamente la lettura dell’intervista di Federico Fubini, Corriere, a Tito Boeri, presidente dell’Inps. Sostiene quest’ultimo che “con gli interventi sulla quattordicesima, sui lavoratori precoci e la sperimentazione sull’Ape social (l’anticipo pensionistico a spese dello Stato, ndr) – aumenta il debito pensionistico di circa 20 miliardi. Poi ci sono i costi legati all’estensione della fascia di reddito non tassata per i pensionati, più i crediti d’imposta per chi chiede l’Ape di mercato (l’anticipo pensioni tramite prestito bancario, ndr). E varie altre questioni aperte, che possono generare ulteriori spese”. Una bocciatura clamorosa della politica di Renzi. È come se Boeri avesse detto al premier: sei disperato e per ottenere qualche voto stai mettendo a rischio le pensioni future. Boeri lo sa: “Voglio finire il mio lavoro. Detto questo, lascerei senza rancore se il premier me lo chiedesse”. Se Renzi non gliele chiederà, le dimissioni, vorrà dire che il premier metterà in conto di vivere in regime di coabitazione anche con il presidente dell’Inps da lui stesso nominato. Si piega, si sta piegando Renzi. La sua spocchia arrogante è solo una maschera che indossa in tv per esibirla ai gonzi. Un’opposizione degna di questo nome dovrebbe combatterlo – perché non ha un’idea del futuro e così non si governa – ma al tempo stesso mettendo il dito nella piaga, approfondendo la contraddizioni, cercando alleanze, facendo proposte. Vale per noi, pochi, di sinistra. E varrebbe per i 5 Stelle.