Se boccia la manovra l’Europa rischia la fine. Il titolo di Repubblica regala a Padoan un cuor di leone. Più modestamente il Ministro del Tesoro ha difeso la sua manovra e, dopo essersi attribuito volentieri lo sfottò del Renzi che lo ha definito San Prudenzio, si è sommessamente schierato dalla parte del suo boss, nel conflitto con l’Unione: «L’Europa deve scegliere da che parte stare. Può accettare il fatto che il nostro deficit passi dal 2 al 2,3 per cento del Pil per far fronte all’emergenza terremoto e a quella dei migranti. Oppure scegliere la strada ungherese, quella che ai migranti oppone i muri, e che va rigettata. Ma così sarebbe l’inizio della fine». E, certo, se l’oggetto del contendere fossero i soldi che l’Italia ha speso per accogliere i migranti, lo 0,3 o lo 0,1% del PIL, non ci potrebbero essere dubbi su chi abbia torto. La cosa appare, però, a Federico Fuibini, che ne scrive sul Corriere, assai più complicata: “Nella Commissione UE è palpabile il disagio di fronte a un Paese considerato fragile, che continua a rimettere in discussione ogni pochi mesi gli accordi presi e presenta misure – dalle pensioni, alle sanatorie fiscali – che rischiano di complicare i problemi invece di risolverli. L’irrigidimento di questi giorni a Bruxelles è la reazione di un’istituzione che si sente sfidata da un interlocutore percepito come inaffidabile”.
Se vince il Sì non ci saranno più limiti per le lobby del petrolio. Lo dice al Fatto il governatore della Puglia, Michele Emiliano. “Lo Stato avrà la potestà esclusiva in materia di energia e una clausola di supremazia anche sulle materie riservate alle Regioni. E allora potrebbe estendere la ricerca di petrolio ovunque, anche entro le 12 miglia marine dalle coste. Basterebbe una legge ordinaria”. L’ira di Emiliano ha una causa immediata, il contenzioso con il ministro Calenda su un gasdotto che la Puglia vorrebbe spostare di 30 chilometri perché – sostiene il governatore – sul tratto scelto “ci sono problemi geologici e l’approdo (del gas dotto) capita in una spiaggia bellissima”. Calenda lo ha bollato senza pietà: “Abbiamo il nostro governatore della Vallonia” – regione del Belgio che sta bloccando l’accordo di libero commercio tra Europa e Canada – , “Emiliano sa benissimo che spostare di 30 chilometri il gasdotto vuol dire non farlo. Serve responsabilizzarsi, altrimenti diventa il gioco a chi è più irresponsabile”. Sia detto che Vallonia ha obiettato su quella clausola del trattato che consente alle multinazionali di ricorrere in tribunale contro gli Stati che ostacolassero in qualche modo lo sviluppo dei commerci e i loro interessi. “In un solo colpo – replica Emiliano – un ministro della Repubblica ha offeso il governatore della Puglia e quello della Vallonia. Ne deduco che il Governo non ha selezionato la persona giusta per quel ministero”. Emiliano voterà No al referendum anche perché la riforma Renzi-Boschi toglie alle regioni il diritto di dire la loro sulla politica energetica del governo. Una riforma non “federale”, ma statalista.
Stato regioni. Spiega il Corriere, a pagina 13, che passeranno allo stato centrale “le competenze le materie del commercio con l’estero, dell’ordinamento della comunicazione, della tutela e sicurezza del lavoro, della produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, della ricerca scientifica e tecnologica, delle grandi reti di trasporto e navigazione”. E molto altro. Cosa resterà alle regioni? La capacità di spesa – con qualche aggio per l’intermediazione e le solite cadute nella corruzione – per esempio la spesa sanitaria, ma secondo le direttive e nella misura che Roma deciderà. Prosit! Però, attenzione, tutto ciò non vale per le regioni a statuto speciale. Quelle rimangono fuori. Così accadrà per esempio che le sorelle minori, le regioni a statuto ordinario, si dovranno caricare (quest’anno) anche le quote che sarebbero spettate alla Sicilia (e alle altre “speciali”) delle riduzioni di spesa imposte agli enti locali dalla finanziaria dell’anno scorso. Non solo, Michele Ainis spiega a pagina 30 della Repubblica che un emendamento presentato dal senatore Karl Zeller, e recepito da maggioranza e governo, stabilisce che “l’autonomia delle Regioni speciali non verrà mai più ridimensionata”. A meno che non lo decidano loro stesse. Norma “blindata” in Costituzione. Mi dispiace per chi voterà Sì, ma la “nuova” costituzione è davvero scritta in modo casuale, insensato, indecente. Sembrerebbe l’opera di una talpa che ha scavato la terra per far sprofondare Matteo Renzi.
Rottamati. La nuova grafica sembra aver svegliato il manifesto da un lungo sonno e i titoli stanno tornando efficaci. Rottamati sono i giovani, dai 18 ai 34 anni, che nella grande maggioranza, il 67%, dormono ancora a casa dei genitori. Perché altro non possono fare. Sapete cosa costa un appartamento in una grande città? O quanto tempo ci voglia per raggiungere il lavoro (precario e pagato coi voucher) da un comune dell’hinterland non servito (ovviamente) dall’alta velocità? Sapete cosa si debba fare, cosa dimostrare della propria indigenza, per ottenere un posto al nido per un figlio? Sapete quanto costino gli studi, anche in una università pubblica, tra tasse, libri, trasporti o come sia difficile lavorare e studiare insieme? E la sanità, se non hai una copertura integrativa? Code infinite ai pronto soccorso e servizi che si riducono ogni giorno. Informatevi, prima di bollarli chiamandoli “mammoni”. Poi, certo, saranno pure mammoni, ma non solo né tanto per libera scelta.
Sessant’anni fa, il 23 ottobre 1956, l’Ungheria intera, compresi moltissimi comunisti, si ribellò unita contro la dittatura, dice a Repubblica Agnes Heller. E fu scontro anche nel PCI. Giolitti guidò il dissenso e, alla fine, lasciò il partito. Rossanda e Feltrinelli, allora giovanissimi, furono incaricati di portare alla direzione milanese dell’Unità un documento di prudente sostegno ai “compagni ungheresi”, documento che non fu pubblicato. Toccò a uno stalinista moderato, uno che studiava l’inglese e veniva considerato parte di un’ala “liberale” del Pci solo perché parteggiava per Giorgio Amendola, figlio di Giovanni che fu davvero liberale e antifascista, toccò a Giorgio Napolitano, purgare il dissenso: “l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ha contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”.
Non si spiega Renzi senza Napolitano. E non si spiega Napolitano se non si riconosce il tragico fallimento di una classe dirigente che fu stalinista, che usava mentire per difendere presunti interessi superiori, che ha, poi, rinunciato alla lotta di classe e al sol dell’avvenire ma continuando a nutrire l’idea di poter dettare legge in none di una presunta (a storica) egemonia. Che è diventata statalista ed è rimasta stalinista. Riccardo Lombardi denunciava già nel 57 “la inveterata mentalità comunista, secondo cui il partito, tutto sommato non sbaglia mai”. Girando per il No nelle regioni un tempo rosse, ora con persino le cooperative che sono in crisi, con tanti giovani poveri e troppi voucher, mi è capitato di imbattermi in questi “vecchi” compagni schierati per il Sì “perché Renzi è il segretario del Partito e ci vuole unità”. “Sbagliano perché non capiscono” pare abbia detto D’Alema. È vero, “non capiscono” perché i loro dirigenti post comunisti non hanno mai voluto fare i conti con la loro storia.