Con la bava alla bocca. Fa specie vedere Trump e, qui da noi, Libero e il Giornale far festa per la morte di un uomo di 90 anni che ha tenuto testa per 57 all’unica super potenza rimasta nel pianeta, che ha respinto un’invasione promossa e finanziata dalla Cia, ha sopportato con il suo popolo l’odioso embargo americano, si è preso la soddisfazione di vedere “un Presidente nero” e un “Papa latino americano” venire a Cuba da ospiti, non a dettar legge. O gonzi! Quel barbuto comandante, con le braccia lunghe lunghe e le gambe ancora di più, ha vinto. Una vittoria amara, certo. Perché Guevara non è riuscito a rompere l’accerchiamento. Perché la solidarietà internazionalista (dell’Urss, per non parlare della Cina) s’è rivelata una truffa: prendeva più di quel che offriva. Perché nessun paese dell’America ispanica, neanche il Venezuela di Chavez, meno di tutti il Venezuela di Chavez, gli ha saputo offrire una sponda credibile. Un dittatore, Fidel? Sì, abbandonato da tutti, Castro lo è stato. Ma un dittatore amato e rispettato dalla maggioranza del suo popolo. Perché in cambio delle sofferenze, della penuria, degli errori burocratici e di scelte obiettivamente autoritarie, Fidel ha saputo offrire ai cubani un bene impagabile: la dignità! Il rispetto di sé, nei confronti di un Grande Fratello che aveva trattato Cuba (e la tratterebbe ancora) come una sala da gioco e un bordello a cielo aperto “nel giardino di casa” dell’imperialismo yankee.
Era un comunista? E con lui, finalmente, scompare quella “ideologia totalitaria”? Non solo gonzi, pure ignoranti! L’utopia comunista, “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, morì a Mosca quando Stalin prese il potere e cominciò a sbianchettare le foto con gli eroi della rivoluzione. E In Cina, al tempo della “rivoluzione culturale”, dopo la sconfitta di Sukarno e il massacro (sempre sulla fedina penale della Cia) di un un milione di “comunisti” indonesiani e delle loro famiglie. Castro era un borghese, Guevara lo era anche lui. Uno avvocato, l’altro medico. Uno, da ragazzo, ha girato il continente sud americano a cavallo della sua moto, il secondo sarebbe forse diventato un campione dello sport. Il capitalismo li ha perduti, li ha trasformati nel peggiore nemico e in incubo duraturo, per colpa della sua grettezza, del legame a doppia mandata con l’ingiustizia, con l’abuso e lo sfruttamento. E in fondo i sogni del Che e di Fidel vivono ancora tra i ragazzi che viaggiano grazie allo sharing, i contadini del chilometro zero, i giovani di occupy wall street, tra chi ascolta anziani e onesti socialisti come Sanders e Corbyn. Vivono, quei sogni, i sostenitori delle Alcadesse di Madrid e Barcellona. E persino tra gli operai cinesi, che hanno strappato, ai “compagni” del capitalismo autoritario di Pechino, una grande riconversione produttiva: investimenti in infrastrutture, misure per contenere l’inquinamento e la disumanità delle città dormitorio, per salvare il diritto alla vita dei loro bambini.
Sì, lo so, nessuno lo chiama più comunismo. È lotta di classe, è politica di sinistra ma senza più un’ideologia cui aggrapparsi. Però quel “fantasma”, di cui quasi 170 anni fa scriveva un intellettuale ebreo con la barba, fa ancora paura. E fa sbavare non di gioia ma di rabbia Trump, Sallusti, Feltri. E suggerisce compunte fesserie ai politici e agli intellettuali che hanno venduto l’anima agli “spiriti animali del capitalismo” finanziario. E tutto questo, lo confesso, diverte un mondo un vecchio gufo sognatore come me. Fidel è vivo. Trump, che si lava le manine cento volte al giorno, che fa controllare le amanti occasionali prima di toccarle, e non vuole gay nello staff per paura che gli contagino l’aids, è una tigre su carta ingiallita!