50mila persone sospese o arrestate, Repubblica. “Epurazioni di massa dentro scuole e moschee”, La Stampa. “Erdogan caccia i professori”, Corriere. Che c’è più da dire? Erdogan sta compiendo un colpo di stato: è il suo quello vero, non il tentativo fallito dei militari. Wikileaks ha pubblicato 295mila mail dell’Akp, il partito di Erdogan. Quando saranno studiate, forse riveleranno i piani di questo golpe, preparato con tutta evidenza da tempo. Non si improvvisano liste di proscrizione nelle moschee e nelle università, fra i poliziotti e nell’esercito, fra i giudici e i giornalisti. In più il colpo di stato di Erdogan ha scatenato una guerra civile (per ora, solo per ora, virtuale). Ronde di suoi seguaci pattugliano le strade di Istanbul, un popolo di funzionari, di spie, di aspiranti Imam e di incolti docenti è pronto a occupare le caselle che le epurazioni di massa hanno lasciato vuote. Per ora l’altra parte di questa guerra civile è silente, annichilita dai fatti di venerdì scorso e dall’uso che l’Akp ne sta facendo. Ma è solo questione di tempo: reagiranno i curdi, reagiranno i turchi che non vogliono diventare wahhabiti, reagiranno generali o colonnelli che si ritenevano fiore all’occhiello della Nato e si trovano un dittatore che li porta verso un patto del Mar Nero con la Russia di Putin, domani magari anche del Mar Caspio con l’Iran. Reagiranno, prima o poi. Perché violenza e demagogia non cancellano la memoria storica. La Turchia di Kemal Ataturk – il cui ritratto Erdogan vuole sempre dietro di sé – non è questa cosa qua. Non è questo Sultanato ottomano, che seppe mantenere un equilibrio tra dominatori e dominati. Nè lo è, certo, la grande civiltà bizantina il cui ricordo si respira ancor oggi in riva al Bosforo.
Ma il colpo di stato turco può avviare un disastro più grande. Si guardi al silenzio impotente della ex superpotenza americana. Obama ha chiamato Erdogan per dirgli che non sapeva del colpo di stato e per consigliargli prudenza. Di più non può fare perché ormai è un’anatra zoppa. Uno dei due candidati alla Casa Bianca, Donald Trump, è talmente modesto da rovinarsi da solo la festa del suo “trionfo” a Cleveland: manda sul palco l’ex modella slava che si è presa in moglie ma lei legge lo stesso discorso che fu fatto da Miclelle Obama 8 anni prima. You’re fired, sei licenziato, griderà Donald al ghost writer che ha rifilato a Melania quel testo. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo a lui, prima che ereditasse vent’anni di stolida propaganda reazionaria e anti Washington, prima che scalzasse dal proscenio il Tea Party e i leader della destra fondamentalista cristiana, prima che ottenesse l’appoggio della lobby che spaccia armi da guerra. Trump può solo far male all’America. Hillary Clinton somiglia troppo all’America che sta in alto, che corteggia gli gnomi di Wall Street, che è parte del sistema del complesso economico-militare. Di questi tempi, è difficile farla votare, nonostante la buona volontà di Bernie Sanders. La Nato e i generali del pentagono, la Cia e i servizi segreti? Musi lunghi e facce di circostanza. Sapevano o no del pronunciamento dei militari turchi? E ora che Erdogan corre da Putin, cosa faranno? Hanno mantenuto, anzi accentuato negli anni, una cortina militare ed economica anti russa, che non tiene più. Dopo aver perso l’iniziativa in Siria, lasciando a Mosca spazi inimmaginabili, si rassegneranno ora a mollare la presa sull’alleato turco, quello che schiera il secondo esercito della Nato? Non c’è che dire: è in crisi il sistema di alleanze politico-militare che per 70 anni ha garantito la pace, in occidente.
Dell’Europa non parliamo, per carità. Merkel e Gentiloni minacciano di chiudere le porte dell’Unione alla Turchia se reintrodurrà la pena di morte contro i golpisti. Che anime belle! Per non dire altro. Cosa gli fa pensare che il sultano voglia entrare a far parte della fragilissima – dopo la Brexit – Unione europea? Ad Ankara basta vender prodotti in Europa, basta ottener visti per i turchi in cambio dei servigi turchi in cambio di campi di concentramento turchi per bloccare i profughi siriani. Per il resto il nuovo dittatore di Istanbul ritiene che l’equilibrio geo politico si stia spostando a est. E scommette che i metodi di governo diventeranno ovunque più brutali e autocratici. L’europa si metta in fila.
Renzi respira: non si parla di lui. È quasi un paradosso per un premier che aveva fondato la leadership sulla capacità di porsi al centro dell’attenzione. Ma il mondo cambia e dopo il voto di Roma e Torino la tendenza della politica italiana è a riposizionarsi. D’Alema – intervista di ieri l’altro a In Onda – sfida il premier a tutto campo: chiede che si voti No al referendum costituzionale, dimostra il pressappochismo della riforma, sostiene che se Renzi verrà battuto sarà addirittura più facile ridurre il numero dei parlamentari, superare il bicameralismo e trovare un’intesa sulla legge elettorale che non deprima la rappresentanza. Schifani lascia Alfano, sperando che risorga il centro destra. I voti di Verdini diventano così ancora più necessari per sorreggere il governo. Tanto più che Alfano fa l’Alfano, ricatta e impone il rinvio – sine die – dell’esame di un provvedimento contro la tortura. Fornaro e Speranza (minoranza Pd) propongono una legge uninominale, con premio da spartire in parti disuguali tra maggioranza e opposizioni. In sostanza si eleggerà un solo deputato per ognuno dei 475 collegi: fine del vantaggio per i fedeli del premier, ritorno delle primarie e ritorno nei giochi per le strutture locali del Partito. I renziani prendono tempo per ridurre il danno: votate sì al referendum – dicono – poi vedremo di cambiare la legge elettorale.