Caffè scritto, oggi. Perché la versione audio video, per la fretta – stamani sono stato ospite a Omnibus e devo correre in commissione Antimafia – mi pareva lunga e sfilacciata.
L’America si ribella – scrive Repubblica – Obama: in pericolo i nostri valori. Importantissimo questo ribellarsi della piazza, ma anche di uomini delle istituzioni (la ministra della giustizia a interim, nominata da Obama, ha detto no al bando di Trump sull’immigrazione e il presidente l’ha dovuta sostituire in tutta fretta). Ed è vero che gli Stati Uniti non sono una dittatura e che Trump non può fare a meno e a lungo del Congresso e della Corte suprema. Ma è vero anche che un’America ha votato per Trump e condivide ancora, purtroppo, le sue posizioni muscolari (muro con il Messico, bando sull’immigrazione). Se l’America dei diritti non saprà diventare anche l’America che combatte le disuguaglianze e lo strapotere delle multinazionali e dei fondi, una parte del popolo continuerà per qualche tempo a fidarsi più di Trump. Naturalmente se fra 2 anni i repubblicani perdessero le elezioni di medio termine, tutto tornerebbe in gioco. Ma non vedo possibili impeachment immediati.
Terrore nella moschea, titola la Stampa. “Strage a Quebec City, 6 vittime tra i fedeli in preghiera. Arrestato il killer: si chiama Alex, studente emarginato, fan di Trump e Le Pen. Odia sinistra e immigrati”. Noi occidentali ci consideriamo più “civili” del resto del mondo e vantiamo, a ragione, i meriti della democrazia. Tuttavia non siamo al riparo dalla barbarie medievale e reazionaria. D’altra parte il nazismo nacque e crebbe in Europa, non in un paese musulmano. Faremmo bene a ricordarcene, ora che personaggi come Trump usano razzismo e protezionismo per rivendicare un ruolo d’eccezione per gli Stati Uniti. Un’America con tutti i diritti e nessun dovere. Perché c’è questa pretesa dietro lo slogan America first.
Tensione su spread e borsa. Il Corriere sceglie d’aprire con i mali di casa. Spread che sfiora i 190 punti e borsa di Milano, trascinata in basso dalle difficoltà Unicredit, che perde quasi 3 punti. Preoccupato commento di Federico Fubini sul nuovo che avanza: “Per un’Italia che uscisse dall’euro, svalutasse e di fatto minacciasse di non saldare il suo debito estero in euro, le porte dell’Unione si chiuderebbero quasi subito. Tornerebbero le barriere doganali verso i primi due mercati di sbocco: la Germania, verso la quale esportiamo per oltre 50 miliardi l’anno; e la Francia che assorbe 40 miliardi di made in Italy (con un forte surplus commerciale a nostro favore). A quel punto l’Italia istintivamente si rivolgerebbe all’altro alleato di sempre, gli Stati Uniti”. Trovo che Fubini non abbia tutti i torti. Coloro che da noi dicono “che problema c’è, usciamo dall’euro, riprendiamoci la sovranità monetaria e tutto si arrangerà”, dovrebbero rispondere alle sue obiezioni. Con il debito pubblico che abbiamo accumulato, l’evasione fiscale e la corruzione che ci portiamo dietro, con il capitale criminale che ci sovrasta, l’Italia da sola rischierebbe di essere un vaso di coccio, una barca senza vela.
Forse un’alternativa si può costruire. Oggi Marc Lazar corregge Repubblica che ieri definiva il vincitore delle primarie socialiste, un “utopista”. Intervistato da Anais Ginori, Lazar sostiene: “la forza di Hamon è aver saputo offrire una narrazione nuova, spostando il partito a sinistra. Il concetto di utopia in questo caso è da maneggiare con cura”. “Hamon vuole il potere – continua il politologo – non è un movimentista, ha una nuova visione del mondo, del lavoro, dell’ecologia”. Certo è ben possibile che Hamon, stretto tra Mélenchon (che da anni critica da sinistra il partito socialista di Hollande) e Macron (che con Hollande ha rotto un mese fa scappando a destra), non passi il primo turno. La sua proposta arriva in ritardo, dopo anni di sonno socialista. Come sono in ritardo affannoso quei pezzi del ceto politico di sinistra che in Italia cercano di costruire un’alternativa a Renzi. Ma qualcosa si muove: si intravvede almeno un tentativo embrionale di ricostruire una sinistra nuova.
Chi staccherà la spina a Gentiloni? Ormai è chiaro che Renzi teme il congresso e a questo punto – forse – anche le primarie. Vuole andare al voto al più presto perché spera così di poter riproporre il suo vecchio progetto, battuto dal voto popolare del 4 dicembre, incagliato nelle sue stesse contraddizioni, bocciato dalla Consulta. Ha minacciato un “futuro che torna”. E proprio da questo ossimoro traspare la fragile scommessa del giocatore in affanno. D’Alema è salito in cattedra e gli ha fischiato il fallo, minacciando una lista alternativa in caso di blitz per votare subito. Il Giornale sostiene oggi che tale lista (Pd di sinistra + sinistra) otterrebbe il 14%, lasciando al Pd di Renzi solo il 20%. Previsione che vale quanto valgono i sondaggi prima che gli elettori metabolizzino la posta in palio, cioè in che condizioni si andrà a votare. Ma anche il 31% che Masia (sondaggista per Mentana) attribuisce a un Pd unito è solo virtuale. E poi, come si andrà al voto? Taluni retroscenisti pensano che Renzi riuscirà a convincere Bersani, Franceschini, Rossi e Emiliano a rientrare nei ranghi offrendo loro una quota di seggi sicuri (grazie ai capilista bloccati). Io credo che la torta sia troppo piccola e gli appetiti altrettanto grandi. E se poi mai il Pd ritrovasse l’unità per interesse, beh questo si trasformerebbe in un regalo per 5 Stelle e Sinistra Italiana.
Renzi è in difficoltà, ha perso il tocco e credo stia andando allegramente a sbattere. Oltretutto l’ipotesi di votare il 30 aprile, forzando con un voto della direzione il Presidente del consiglio a dimettersi, rischia di non fare i conti con Mattarella e con il partito del Presidente che mi pare si stia costituendo. Partito trasversale, che può andare dallo stesso Gentiloni, alla Boschi, da Orlando a Draghi, passando per imprenditori e sindacalisti preoccupati da un Renzi non più vincente. Vedremo. In ogni caso, se si votasse il 30 aprile, l’Italia resterebbe a lungo senza governo. La simulazione di Masia dà infatti 307 seggi (troppo pochi) persino a una alleanza tra tutto il Pd, Forza Italia, centristi di Alfano e autonomisti di governo.