Londra sfida: schedare i lavoratori stranieri, la Stampa. “Theresa May: prima i britannici”, Corriere. È un piccolo passo verso il burrone. Il Mein Kampf era bardato della paranoia razzista del suo autore, ma per i tre quarti proponeva vantaggi materiali, lavoro a scapito degli immigrati, assistenza e tutele ai membri, nativi e perciò stesso eletti, del popolo tedesco. Avvertenza per i cretini: non sto paragonando May a Hitler, dico che nei popoli si manifestano davanti alla lunga crisi e alla stagnazione secolare pulsioni simili a quelle che si manifestarono in Europa dopo il 29. Aggiungo che una parte della politica, per rispondere a quelle pulsioni, rispolvera il nesso (secondo me) incestuoso popolo-nazione-stato.
Il 7 ottobre del 2001 iniziava la guerra in Afghanistan. Repubblica dedica alcune pagine a quello che l’ambasciatore Toscano definisce “il nostro clamoroso fallimento”. Da allora gli americani hanno speso 2100 miliardi, l’Afghanistan non è risorto, la guerra purtroppo continua, i talebani amministrano un decimo di quelle terre (mai tante – scrive Bernardo Valli – da quel 2001), la Nato presidia ancora Kabul e dintorni con 12.390 uomini. I soldati USA morti in combattimento sono 2500, gli italiani caduti laggiù 53, piccoli numeri se confrontati ai morti afgani: 31mila civili, 30mila militari afgani, 42mila talebani, in tutto oltre 100mila vite spezzate. Quando l’allora direttore de Le Monde, Jean Marie Colombani, scrisse dopo l’11 settembre “Nous sommes tous americains”, anch’io pensai che gli Stati Uniti avessero il diritto di andare in Afganistan per chiudere le basi di Al-Qaeda dalle quali era partito l’ordine agli aerei kamikaze. Mi sbagliavo: la guerra imperialista fin dall’inizio fu condotta per contenere le perdite occidentali facendo pagare il prezzo più alto alle popolazioni afgane, fu pensata per insediare a Kabul un governo fantoccio, con a capo un dandy ammaestrato in America ma della stessa etnia pashtun dei talebani, dominata dalla preoccupazione di non dispiacere l’alleato Pakistan (che i talebani sosteneva e foraggiava), senza nessuna reale intenzione di prendere Bin Laden (che troppe cose sapeva dei rapporti tra sauditi e intimi di Bush). Presto l’impero volle una palcoscenico più grande, una guerra più gloriosa. Nel 2003, lasciato Bin Laden in Pakistan, Bush invase l’Iraq. Blair e la sinistra lo appoggiarono, così condannando l’Unione a non restare che mercato e moneta.
Siamo seduti sopra 152mila miliardi di debiti. Il 200% del prodotto interno lordo dei 13 paesi più indebitali. E i due terzi di questo buco è attribuibile al settore privato. Lo dice il Fondo Monetario Internazionale e Financial Times ne scrive in prima pagina. Come volete che le banche non tremino, che i mercati non siano nervosi, che il ceto medio risparmiatore non abbia paura e perciò rinunci a spendere? La crisi che si è aperta nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers non si è mai conclusa. Ho visto un grafico (annesso al DEF) con la serie delle recessioni e delle riprese in Italia da quel dì: la crisi del 2012-2013 è stata meno profonda di quella dal 2008 al 2010, ma la ripresa del 2014-2015 è stata più flebile di quella, già assai debole, del 2011-2012. Il grafico suggerisce che non ne siamo mai veramente usciti. E se ci guardiamo intorno vediamo come le disuguaglianze aumentino costantemente, le ripresine proseguano in altre forme il lavoro avviato dalle crisi, facendo crescere il numero dei precari e delle aziende che chiudono, riducendo i diritti e le garanzie del lavoro.
C’è chi vota sì e chi invece ha capito. By Crozza. Eccoci alla soap opera referendaria. Gli editorialisti, Stefano Folli “Propaganda e colpi bassi”, Marcello Sorgi, “Se la politica cede il passo agli avvocati”, Antonio Polito, “Una corsa elettorale infinita”, temono che il paese si imbarbarisca in uno scontro elettorale mai così lungo. E chi ha voluto che così fosse? Matteo Renzi, che prima ha fortemente voluto il referendum a ottobre prima dell’esame della finanziaria, poi ha avuto paura di perdere e ha spostato la data al 4 dicembre per poter dispiegare la sua gioiosa macchina da guerra che costa 3 milioni al Pd, altri soldi al governo (per l’impegno del premier e dei ministri) e altri all’Italia (per la paralisi parlamentare che provoca). Giannelli disegna Padoan e Renzi. Il ministro: “Sul Financial Times dicono che le nostre riforme sono un ponte verso il nulla”; il premier: “E come si permettono?!! Non conoscono nemmeno le dichiarazioni di Benigni”. Ebbene sì, il piccolo diavolo ha speso la sua popolarità a favore di Renzi. “Il No peggio della Brexit”, ha detto. Quando sul finire della “Vita è bella” fece liberare Auschwitz da un carro armato americano e non sovietico come fu nei fatti, molti sbottarono: “cosa non si fa per un Oscar. Pensai a una caduta di stile, a una licenza artistica per suggerire un sorriso (a stelle e strisce) dopo la descrizione dell’olocausto. Ma si vede che Benigni è così: attacca il bue al carro di chi gli pare il più forte.
I confronti in Tv? Nutrono l’ego ipertrofico di Renzi. Pare lo abbia detto uno che di ipertrofia dell’io se ne dovrebbe intendere. Il Fatto racconta, infatti, che Massimo D’Alema declinerà l’offerta di un faccia a faccia televisivo con Renzi e che sostiene “Dopo il 40,8 per cento alle Europee – dice – Renzi ha costruito un percorso di guerra: riforma costituzionale e legge elettorale, referendum plebiscitario, e poi elezioni con una carta che gli attribuisce molto più potere di oggi. Una deriva plebiscitaria che gli serve anche per liberarsi dal peso del suo partito, che ormai non esiste più”. Il dubbio che mi assale è chi fra i due, D’Alema o Renzi, abbia saputo, alla fine, mantenere un qualche legame con la realtà esterna. Mi dico, allora, che il primo si dimise da presidente del consiglio, nel 2000 dopo che il centro sinistra aveva perso le regionali, il secondo, ha perso le elezioni a Napoli, Roma e Torino ma ha detto che quel voto non contava e si è fatto scudo col referendum, poi ha avuto paura anche del voto referendario e ci ha imposto l’attuale lunga e lenta agonia. Fate voi!