Cumuli di rabbia. Non arrivano i nostri. Solo il terremoto si ricorda del terremoto. Sono i titoli del manifesto, del Giornale, del Fatto. Siamo un paese fragile, che non sa governare il suo territorio. Un paese smemorato che dimentica ogni emergenza fino alla prossima. Che non sa che fare per una forte nevicata, invernale, sull’Appennino. Un paese, la cui capitale entra nel panico per tre scosse consecutive tra il 5,1 e il 5,5 della scala Richter. Ora i giornali hanno spedito inviati in mezzo alla neve e tra le rovine, ora le televisioni mostrano sfollati che, spalando la neve, si sono trasferiti da casa in una “tecnostruttura senza bagni”, che poi sarebbe una tenda. E tutti piangono mucche e maiali seppelliti da tetti che si sapevano fatiscenti. Ma tanto non erano per noi umani. E poi? Che lezione tireremo? Che ognuno di quei comuni avrebbe dovuto dotarsi di un qualche mezzo di soccorso in grado di muoversi sotto la neve. Che case e capannoni pericolanti andavano abbandonati dagli uomini e dagli animali. Che i giornalisti, loro, dovrebbero raccontarla un po’ meno in prima persona. Perché, va bene, hanno avvertito le scosse pure negli studi da cui trasmettevano i talk del mattini, e io l’ho sentita seduto anche lassù, seduto sulla “montagna” dell’aula di Palazzo Madama. Va bene, e che sarà mai? Un paese normale prende atto che la sua amata terra trema. Chi informa, se vede muoversi una luce dello studio, si chiede dove e come il sisma possa aver creato disastri. Non se la canta e se la suona. La penso così.
Donald Trump, senza luna di miele. Domani, finalmente, il Presidente eletto prenderà possesso dell’ufficio ovale in quella casa coloniale che in America è simbolo del potere. New York Times scrive che Trump ci entra “non piegato e impopolare”. Nessun Presidente eletto ha avuto mai un gradimento tanto basso il giorno dell’insediamento. Oltre metà dell’America non lo ama, non lo avrebbe voluto ed è pronto a contestarlo. È la dimostrazione che la democrazia maggioritaria funziona sempre meno. Il meccanismo di selezione (per vincere anche d’un soffio) tra i due storici partiti, ha portato alla sfida tra Hillary e Donald. Ma tantissimi non confidavano né nell’uno né nell’altra. E ora si trovano con un commander in chief che non gli piace affatto. Trump potrebbe persino cambiare. Passo dopo passo, provare a omologarsi con un sentire più condiviso. O invece potrebbe accanirsi sui media, sui giornali, l’intellighenzia di Washington, i manifestanti in servizio permanente effettivo. Banche e fondi finanziari invece fanno festa. Trump è uno di loro e non li deluderà.
Renzi? Nè candidato premier, né segretario. Massimo D’Alema si vendica: “Diciamo le cose come stanno: la caduta di Renzi è stata costruita da lui stesso. È stato lui a imporre con tre voti di fiducia una legge elettorale incostituzionale, per poi dopo tre mesi considerarla anche sbagliata. È stato lui a impostare il referendum come un grande plebiscito sulla sua persona; dopo un’esperienza di governo fallimentare, nonostante il favore al di là di ogni ragionevole limite del sistema dell’informazione, almeno di quella ufficiale; che non mi pare abbia comunque avuto una grande influenza sull’esito finale del voto”. La conseguenza che ne trae “baffino”, nell’intervista ad Aldo Cazzullo del Corriere, è “che Renzi ci porterebbe a perdere le elezioni…Ormai è chiaro (ndr: parla del Pd) che con Renzi non vinceremo mai”. La soluzione che propone è di ricostruire il Pd a partire da personalità locali, radicate nei loro “territori”. Pare di capire, da De Luca a Emiliano, da Rossi a De Magistris, a Leoluca Orlando (che il Pd di Palermo ora vuole appoggiare), Il tutto condito da una legge maggioritaria uninominale (Mattarellum), in cui la scelta del candidato di collegio diventi più importante di quella del partito. Ah, dimenticavo, se si votasse col proporzionale secondo D’Alema, “il Pd e Berlusconi non avrebbero (insieme) i numeri per fare nessun governo”.