Quelli che votano No. Due giorni tra Altamura e Taranto, Ginosa e Laterza, insieme a molti insegnanti, ad ex operai italsider, giovani che si occupano di tecnologia, precari, contadini e amministratori, tutti decisi a votare No. Non capisco come si possa raccontare questa Italia come un pericolo per l’Italia, questi italiani come bastian contrari nemici di ogni progresso e cambiamento. Oltre il mio piccolo, ma non trascurabile, universo, sempre in Puglia, Emiliano, Camuso e Smuraglia animavano una grande manifestazione a Bari. A Taranto un’altra solo per i 5 stelle. Italie diverse che tornano in piazza, piene di speranza – a me pare – e non di rancore, con proposte, magari diverse, ma con l’intenzione comune di ri-fondare la politica sulla rappresentanza, di ridare agli elettori il diritto di eleggere i loro deputati e i loro senatori. Senza più liste bloccate e con meno ricatti e meno ricatti degli apparati di partito. Non ho sentito, nelle sale, in piazza, o più tardi a cena, la trita retorica che celebra la “costituzione più bella del mondo”, né il tabù per cui non si potrebbe in nessun modo cambiare”. Piuttosto critiche, a mio parere fondate, sul modo confuso e strumentale con cui i nuovi costituenti hanno preteso di riformare. Sul metodo, fatto di strappi, di ricatti mediatici, e atti di forza parlamentare che ha caratterizzato l’iter della legge.
Quelli che il No è un’accozzaglia. Un’accozzaglia contro di me, lamenta il Presidente del Consiglio che riprende a personalizzare: noi (io) contro tutti, noi giovani belli e riformisti, loro vecchi e impresentabili. Un opuscolo, un “fumetto” lo chiama Repubblica, per il Sì dà volti e nomi a tale presunta accozzaglia: “Renato Brunetta con la smorfia, Gustavo Zagrebelsky accigliato, ecco Mario Monti, sguardo perso, ecco Lamberto Dini, a labbra serrate, accanto a un Beppe Grillo urlante”. Ecco Massimo D’Alema con sotto la didascalia: “fece naufragare la sua bicamerale con Berlusconi. Ora lasci fare ad altri quello che non è riuscito a fare lui, senza rancore”. Ecco Ciriaco De Mita, perplesso: “Ha provato a fare le riforme senza riuscirci, il paese non può aspettare altri 33 anni”. Il comitato del No replica: “si vede che Renzi è disperato”. Certo, battendo l’Italia metro per metro, ripetendo mille volte gli stessi slogan e vantando come un disco rotto meriti discutibili, il premier sembra anche a me un po’ solo. Però c’è del genio nella sua campagna negativa. Quando sostiene che vincerà grazie ai voti della Lega e dei 5 Stelle. L’allusione subliminale è chiara: “leghisti, grillini, siamo il nuovo. Anch’io, senza la bandiera europea, anch’io per tagliare i costi della politica. Scontriamoci ma, prima, facciamoli fuori insieme. I vecchi, l’accozzaglia”.
Quelli che scoprono il nuovo patriottismo. “Non c’è dubbio – scrive Antonio Polito – che il cuore politico della battaglia in corso sarà il giudizio sull’intero operato del governo, che porta ormai evidenti sul volto i segni dell’affaticamento dell’età, mille giorni in carica”. Subito dopo Polito ammette però che la manifestazione d’affetto del No per una costituzione scritta dopo la guerra mondiale e la guerra civile contro il nazifascismo, non si può liquidare come puro riflesso conservatore. “La Carta di settanta anni fa, evidentemente, non è percepita solo come una declamazione di diritti e una serie di disposizioni tecniche, ma anche come uno strumento di coesione nazionale. E questo referendum può avere il merito di avercelo ricordato, aprendo un dibattito nella nazione sui prossimi settanta anni”.
Quelli che Trump ha capito. C’è oggi, un po’ nascosto tra i commenti di Repubblica un bell’articolo di Mariana Mazzucato. “Trump ha vinto – scrive – perché ha offerto una narrazione plausibile, agli orecchi di molti, dei fallimenti della politica economica americana che ha lasciato indietro così tante persone, fallimenti che risalgono a trent’anni prima del tracollo economico del 2008”. Ma sono state proprio le aziende come quella di Trump -sostiene a giusto titolo Mazzucato – che “hanno fatto soldi estraendo valore e non creandolo. La rivoluzione del valore per l’azionista negli anni 80 ha creato un modello di impresa che dà priorità agli utili trimestrali rispetto agli investimenti in capacità produttiva. Le aziende spendono sempre più spesso i loro profitti, attualmente a livelli record, per il riacquisto di azioni proprie, per spingere in alto la quotazione del titolo azionario, le stock options e le retribuzioni dei manager. Tutto questo ha portato a un’economia finanziarizzata, che molte delle politiche di Trump, come l’abbassamento dell’aliquota sui redditi societari, non faranno che aggravare.” Dunque Trump è il sintomo, non la soluzione né solo un palliativo.
Combattere le disuguaglianze, sostiene Mazzucato, “dovrebbe essere un obiettivo centrale della politica economia. Abbiamo bisogno di un deciso cambio di rotta in favore di una crescita trainata dagli investimenti che sostituisca l’attuale modello trainato dai consumi e alimentato dal debito, che mette ancora più pressione sui più deboli. Le aziende devono tornare a essere in sintonia con la società, dobbiamo instillare in loro un senso del dovere più ampio, che ricompensi la creazione del valore più che l’estrazione di valore”. Personalmente, non riesco a considerare pazza l’idea che l’Europa di questo possa discutere in occasione del vertice di primavera, che si terrà a Roma, per ricordare i 60 anni dai Trattati.