Pubblico su questo blog, sicuro che l’autore non se ne dispiaccia, l’intervento che Walter Tocci ha svolto stamani all’assemblea del Partito Democratico. Un discorso con cui, davvero, vale la pena misurarsi. Corradino Mineo
di Walter Tocci
Grazie per avermi dato la parola. Non basta parlarsi, dovremmo soprattutto ascoltarci, ciascuno con la curiosità per l’argomento dell’altro. Non siamo stati capaci di farlo prima, dovremmo impararlo almeno dopo la sconfitta.
Un amico del SI mi ha criticato perché, avendo votato NO, invece di sconfitta dovrei parlare di vittoria; io però sono un militante, che non riesce a gioire per le difficoltà del suo partito.
Non servono le letture superficiali o solo politiche del voto. Si sono espressi orientamenti profondi che, se ben interpretati, in futuro potremo volgere a nostro favore. È una buona notizia per la democrazia italiana che migliaia di assemblee popolari e 33 milioni di elettori abbiano discusso della Costituzione, avvertita come ultimo baluardo dalle classi sociali e dai giovani che più hanno subito gli effetti della crisi. Il bisogno di protezione e di “comunità”, per dirla con la parola usata da Renzi, quel bisogno che altrove ha preso le sembianze della Brexit e di Trump, qui per nostra fortuna si è espresso nel primato della Costituzione. Dovremmo rallegrarcene e insieme impegnarci ad attuare la Carta. Che il lavoro assicuri “un’esistenza libera e dignitosa”, come dice l’articolo 36, è la più urgente riforma sociale nell’Italia di oggi. E anche la vigente seconda parte consentirebbe di attuare molti obiettivi del SI. Basterebbe dimezzare il numero e la lunghezza delle leggi per ottenere un bicameralismo più semplice e norme più chiare per i cittadini. Temo invece che la Costituzione scompaia dalla nostra agenda, come se l’argomento fosse servito solo a legittimare un governo, ma ora non ci interessi più.
Con il referendum si chiude un ventennio della politica italiana. Quello di Renzi è stato il coraggioso tentativo di restaurare il vecchio edificio forzando per legge un bipolarismo che però non esiste più nell’opinione pubblica.
Chissà, ci rimarrà un dubbio. Forse se non avesse tentato il plebiscito personale, la revisione costituzionale sarebbe passata e oggi avremmo ancora il suo governo con buone probabilità di vincere le elezioni. O forse no, la sconfitta del PD era inevitabile proprio perché si è presentato come il partito conservatore della Seconda Repubblica ormai superata dagli eventi. Non a caso ci manca il voto giovanile, come si è onestamente riconosciuto nella relazione.
Le promesse del ventennio si sono rivelate tutte fallaci. I leader solitari promettevano più decisione e invece hanno promosso un ceto politico in gran parte inadeguato a governare lo Stato, le Regioni e anche le città, come stiamo vedendo in queste ore. L’ossessione per le riforme istituzionali è servita solo a oscurare la vera causa dell’ingovernabilità, ovvero la lunga crisi mai risolta della classe politica. Il risultato del referendum cambia l’ordine di priorità. Dice alla classe politica: “cura te stessa prima di toccare la Costituzione”. E allora iniziamo da noi.
Si faccia in primavera un congresso diverso dai precedenti. Gettiamo nel cestino questo assurdo Statuto scritto in un momento di follia collettiva. Con le sue regole siamo stati costretti per dieci anni a decidere solo sulla leadership, ignorando tutto il resto: un’idea del Paese, la cultura politica per il nuovo secolo, l’organizzazione innovativa e partecipata. Proprio di queste carenze poi soffrono i leader. Smarriscono le promesse perché non hanno lo strumento per realizzarle. Lo abbiamo visto con Veltroni, con Bersani e poi con Renzi.
Non ripetiamo sempre gli stessi errori. Invertiamo l’ordine del giorno: venga prima il progetto e solo in seguito i nomi, sia per la maggioranza che per la minoranza. Il segretario faccia un passo indietro. Può essergli anche utile, i capi democristiani sapevano lasciare gli incarichi per poi tornare vincenti. Si affidi a un Consiglio di Saggi la gestione del partito e la preparazione di nuove regole. Svincoliamo il congresso dalla scelta del candidato premier, per il quale si possono fare le primarie nel 2018. Ormai la legislatura deve arrivare alla scadenza naturale, come indica Mattarella. Sarebbe dovuta terminare dopo la sentenza della Corte sul Porcellum, approvando allora il Mattarellum come proponeva Giachetti, e senza avventurarsi nella revisione costituzionale. Si volle proseguire la legislatura promettendo faville, ma è arrivata la sconfitta. Ora dobbiamo aiutare Gentiloni a recuperare la fiducia bruciata nel referendum. Anticipare le elezioni sarebbe un maldestro tentativo di rivincita. Il demone dell’“io contro tutti” che ha portato all’insuccesso nel referendum rischia di condurci alla sconfitta nel voto anticipato. Chi può fermarlo si faccia sentire.
Non è più tempo di azzardi personali, è tempo di chiamare a congresso milioni di militanti e di elettori per partecipare alle scelte. Tempo di uscire dal fortino assediato e riconciliare il PD con l’Ulivo, coltivare le sue radici popolari, alimentare la linfa culturale, onorare l’etica pubblica e selezionare la classe dirigente in base ai meriti, ai risultati e ai consensi dei cittadini. Cambiare il PD è la riforma istituzionale che ci compete.