“A 41 anni non devo aggiungere niente al mio curriculum”. Frase, detta al forum della Stampa, che la dice lunga sull’umore nero del premier. Già vecchio, già arrivato, già finito seppur così giovane? Mi dispiace che Renzi l’abbia detta e in fondo spero che sia solo una furbata, un modo subliminale per suggerire il solito ricatto “o me o il diluvio”. Perché se fosse sincera quella frase rivelerebbe un errore fondamentale, l’aver considerato la sfera politica come un mero campo di affermazione personale, un’occasione per realizzarsi contro tutti e comunque. Io ne ho 67 di anni, ho dovuto lasciare la Rai, in Senato ho preso pesci in faccia e non è che la mia vita privata sia tutta un successo, ma non penso affatto di tirare i remi in barca. Proverò comunque a darmi da fare, a dare una mano. E commetterò altri errori. Ma almeno ho capito una cosa: l’impegno pubblico non può ridursi a una lotta tra il proprio ego e il resto del mondo. La politica è vita se riconosce la vita nell’altro, se sa anche ascoltare.
Monti, De Mita, Lamberto Dini, D’Alema e Berlusconi. 5 ex Presidenti del Consiglio che Renzi indica, nel forum, come il passato, il vecchio che vorrebbe mangiarsi il nuovo, il No che avanza contro il Sì della speranza. E aggiunge “Berlusconi dice che il giorno dopo la vittoria del No vuole sedersi a un tavolo con Renzi. No, il giorno dopo ci trova Grillo e Massimo D’Alema, non il sottoscritto. Cinque ex premier che per anni ci hanno detto riforme e non le hanno fatte. Se gli italiani vogliono affidarsi a loro, prego, si accomodino”. Davvero, qui sembra di vedere il ragazzo irrisolto che se sta perdendo si prende la palla e la porta via. Che tristezza! Se quei 5 hanno dato cattiva prova, se anche il governo in carica è finito nelle secche, bisognerebbe provare a capire dove si sia sbagliato e perché. Non accostare parole vuote: vecchio-nuovo, cambiamento-palude, ottimismo-gufi. Se, per capirci, i decimali di aumento del PIL non creano fiducia tra giovani e ceto medio, se la percezione dello stato presente resta negativa, non sarà che manca una prospettiva, una ragionevole utopia?
Indicheremo una terza via, promette il premier: “se vince il Sì l’Italia sarà più stabile e in grado di dettare condizioni all’Europa”. Trovo in questa frase un errore e un’omissione. Quale linea detteremo all’Europa? Cosa il governo italiano vuole rispondere al ricatto di Erdogan il quale, dopo aver privato il suo popolo di ogni libertà, ora minaccia l’Europa di sparargli contro, come se fosse un’arma, orde di migranti? Quale politica economica vorremmo? Un piano europeo per assumere giovani, un nuovo welfare che non lasci solo nessuno, un fisco comune e solidale? O diremo soltanto: “siate sereni, ci pensa Matteo”? Il riferimento, poi, a “una terza via fra Trump e Merkel”, fa cadere le braccia. Il nostro Presidente segretario non ha più, evidentemente, tempo di leggere né di ascoltare se non i sì ripetuti ossessivamente da chi lo circonda. Nel 1984 nacque in America un movimento, “i nuovi democratici”, di cui facevano parte i Clinton. Si proponeva di camminare nell’onda del neo liberismo – Reagan era in carica dall’81 – e di coglierne i dividendi, grazie a una maggiore capacità di dialogo con le élites, da parte loro più preoccupate di estendere i diritti civili che di difendere welfare o salario dei lavoratori. Bill fu Presidente dal 1993, Blair Primo ministro dal 1997. La Terza Via fu dalla parte della mondializzazione finanziaria, “ma anche” della crescita dei diritti. Una politica che ha cominciato a morire l’11 settembre del 2001, sotto i colpi della anti mondializzazione reazionaria islamica: Blair mentì pur di invadere l’Iraq insieme a Bush. E che è stata sepolta nel 2008, quando la crisi ha messo a nudo come l’occidente, la mondializzazione e la crescita dei diritti riposassero sopra un oceano di debiti. La terza via si è semplicemente esaurita ed è anacronistico riproporla fuori tempo massimo.
Bocciata la riforma Madia. È la notizia del giorno, titolo in prima pagina del Corriere e di Repubblica. Incostituzionale, dice la Consulta, perché l’attuazione della riforma della pubblica amministrazione andava “concordata con la conferenza Stato Regioni, non semplicemente imposta alle Regioni. Qui si rivela la miseria d’insieme dell’azione di governo: l’illusione, maturata dopo l’illusorio 41% delle Europee, che si potesse strappare il potere per uno solo e i suoi sodali. Senza darsi la pena di spiegare, di convincere, di mediare almeno nei limiti del ragionevole. Renzi ha voluto prendere in ostaggio il Parlamento, le Regioni e i sindacati, con la sua narrazione duale. Così ha diviso il paese (il governo che “vuol bene” all’Italia, “l’accozzaglia dei vecchi gufi rancorosi”) ma non ha portato al paese che risultati modesti: lo zero virgola, i famosi 80 euro, la quattordicesima per i pensionati al minimo. Mentre elargiva regali a pioggia agli imprenditori facendo crescere deficit e debito tendenziale. Sul Fatto Quotidiano, Roberto Scarpinato fa invece risalire l’incapacità dei governi di governare, non ai vincoli costituzionali, ma piuttosto all’aver ceduto le leve della politica economica alla Commissione Europea, alla BCE, al FMI,tutte istituzioni “prive di legittimazione democratica”. Renzi ha solo proseguito sulla strada dei 5 premier che sfotte.
Il futuro delle donne. Il manifesto si ricorda in prima pagina delle manifestazioni che si sono svolte ieri in tutto il mondo e di quella che si terrà oggi a Roma, contro la violenza alle donne e titola “Il corpo del delitto”. Secondo Manuela Perrone, Sole24Ore, l’85% degli omicidi contro le donne in Italia sono femminicidi, commessi dal partner, dal marito o da un familiare. Il 47% delle donne uccise a livello mondiale, ha ricordato l’Unicef, è stata ammazzata dal compagno o da un componente della propria famiglia”. Se ciò è vero, non siamo davanti a semplici rigurgiti di maschilismo e abusi patriarcali. Temo che il corpo della donna sia diventato il primo campo di battaglia della nuova anti mondializzazione reazionaria. Umiliare una ragazza, sfregiare con l’acido o con il fuoco il suo viso, toglierle la libertà e la vita, somiglia a un esorcismo di massa, a un funesto rito sacrificale. Come il rogo sulla croce ad opera degli incappucciati del Ku Klux Klan. È la paura di un futuro senza vecchie regole e abitudini secolari, che motiva il delitto, che trasforma un maschio terrorizzato dalla propria vita e debolezza in un carnefice orribile. Anche il femminicidio, soprattutto il femminicidio, mostra come il nesso tra mondializzazione e crescita dei diritti si sia spezzato. Non camminiamo, purtroppo, sul tappeto rosso di un allargamento progressivo di diritti e libertà, seguendo il sol dell’avvenire. Al contrario dobbiamo tornare a spiegare, farci capire, a rassicurare, restando inflessibili. Il Papa di una chiesa che tanti crimini ha commesso in nome del patriarcato dà oggi un suo, importante, contributo: “Quante donne sopraffatte dal peso della vita e dal dramma della violenza! Il Signore le vuole libere e in piena dignità”.
Hasta la victoria siempre! Finito di scrivere il caffè, apprendo che è morto Fidel Castro. Avevo 9 anni quando con i suoi barbudos ha preso L’Avana. 15 quando il Che lasciò Cuba, per provare a rompere l’accerchiamento e portare la rivoluzione in Africa e in Sud America. E 17 quando il suo corpo, martoriato, venne impietosamente esposto da agenti della Cia e da gorilla prezzolati. Quando seppe della morte, Fidel parlò di Guevara come di “un artista della guerra rivoluzionaria”. “È strano – chiese, forse con una punta d’invidia – se questo artista è morto in combattimento?” A Fidel è toccato vivere, resistere al male che lo affliggeva e all’embargo che punisce l’intero popolo di Cuba. Gli è toccato di commettere errori e di violare alcune delle libertà per quali aveva combattuto nella Sierra. Ma ha testimoniato, con la sua lunga vita, che non è impossibile un mondo diverso. A febbraio ero a Cuba con i miei ragazzi. Fra tassisti alla ricerca di dollari e modelle che sfilavano, un sentimento era rimasto: l’affetto per Fidel. Una canzone che ascoltavo alla radio recita: “Raul non è Fidel”. L’affetto e la gratitudine per il vecchio comandante, il rispetto per il suo sogno, è sopravvissuto al socialismo che non c’è e Cuba, e all’embargo americano che punisce tutto il popolo.