Trump: caccio i clandestini, titolo di Repubblica che troviamo quasi identico su Corriere e Stampa. Così è! Ha detto alla Cbs che subito verranno “cacciati” o “messi in prigione” fra i due e i tre milioni di clandestini, “criminali, pregiudicati, che fanno parte delle gang o sono trafficanti di droga». Possiamo consolarci notando come, durante la presidenza Obama, ne siano stati cacciati due milioni e mezzo, ma che la procedura in uno stato di diritto è complessa: bisogna identificarli, portarli davanti al tribunale dell’immigrazione e anche lì potranno fare appello. Possiamo ricordare come giorni fa Trump voleva cacciarne 11 milioni, e mancano due mesi all’insediamento, il 20 gennaio: tanto tempo potrebbe portargli consiglio e prudenti consiglieri. Già ora dice che, per una parte, il muro con il Messico sarà solo “un confine controllato”. Però è evidente che le promesse della campagna elettorale non possono essere cancellate con un tratto di penna. Migranti via, 1000miliardi di investimenti in infrastrutture, se vogliono la Nato se la paghino, dazi sulle merci cinesi anche se la Cina detiene un terzo del debito americano, sì all’industria del carbone, no agli accordi sul clima.
Benvenuti nel mondo di Trump. Le Monde prova a uscire dallo sconforto di alcuni e dalla irragionevole speranza di altri che Trump non faccia il Trump, vale a dire dai due sentimenti che si rincorrono continuamente sui giornali e in televisione. Bruno Latour, sociologo, antropologo e filosofo delle scienze, spiega “Brexit non è un’anomalia..tutte le grandi nazioni che hanno dato vita alla mondializzazione si stanno ritirando dal progetto.” E lo fanno nel nome di un popolo sofferente “i bianchi senza diploma, quelli lasciati indietro dalla mondializzazione, i miserabili..senza dubbio un popolo, un arcipelago nel mare dello scontento, a cui noi, l’intelligence, che vive in una bolla, non abbiamo saputo dare né forma né voce”. Latour descrive lo scontro tra due schieramenti entrambi inconcludenti: “I primi, chiamiamoli i globalizzati, credono ancora che l’orizzonte dell’emancipazione e della modernità (spesso confuso con il regno della finanza) non cesserà di estendersi conquistando il pianeta. I secondi hanno deciso di ritirarsi sull’Aventino sognando il ritorno del mondo che fu. Due utopie..due bolle d’irrealismo. Per il momento, vince l’utopia del passato. Nulla prova che le cose si sarebbero messe meglio se avesse trionfato l’utopia del futuro”.
Una chance per far ridare vita a una vera sinistra. È, invece, il titolo del saggio di Slavoj Zizek, filosofo e autore del saggio “Le nuove lotte di classe. Le vere cause dell’immigrazione e del terrorismo”. Zizek sostiene che “la vittoria di Trump non trasformerà gli Stati Uniti in uno stato fascista”. Come purtroppo sta succedendo nelle Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte “che incita apertamente all’assassinio dei tossicomani e degli spacciatori e non esita a paragonarsi a Hitler, incarna il declino dello stato di diritto, avendo trasformato la potenza statale in violenza di strada dove vince la legge sulla giungla”. A proposito di Duterte, oggi Repubblica racconta come egli offra a un agente, pagato 28mila pesos al mese, ben 10mila pesos se uccide un delinquente che possedeva una calibro 38 e 25mila se il morto aveva in tasca una 45. Tornando a Zizek, “i liberali disperati per la vittoria di Trump – egli scrive – non hanno tanto paura di una svolta radicale a destra. Piuttosto quello che li terrorizza, in realtà, è un cambiamento sociale radicale. Per riprendere le parole di Robespierre, costoro riconoscono le ingiustizie profonde della nostra vita sociale (e sinceramente se ne dispiacciono) ma vorrebbero combatterle con una rivoluzione senza rivoluzione, un cambiamento senza cambiamento, che risparmi il mondo e conservi i liberali pieni di buone intenzioni al riparo nel loro bozzolo”. “La vittoria di Hillary sarebbe stata la vittoria dello status quo, rabbuiata dalla prospettiva di una nuova guerra mondiale”. Dunque, conclude Zizek, “se amate l’America come me, è venuto il momento di battersi per amore, di impegnarsi in un lungo processo di formazione di una sinistra radicale negli Stati Uniti”.
Per un’altra mondializzazione. Da parte sua Thomas Piketty constata come “le amministrazioni Clinton e poi Obama abbiano spesso accompagnato il movimento di liberalizzazione e sacralizzazione del mercato lanciato da Regan e poi da Bush padre e figlio, quando addirittura non l’hanno inasprito, come ha fatto Clinton con la de-regolarizzazione finanziaria e commerciale che ha attuato”. D’altra parte “il programma di Trump non farà che accrescere le disuguaglianze, privando i salariati poveri dell’Obama Care e tagliando le tasse federali sugli ultimi delle società dal 35 al 15%”. Tocca all’Europa, sostiene Piketty, battere un colpo e provare a “ri-orientare completamente la mondializzazione”. Se i problemi più gravi del tempo che viviamo sono “le disiguaglianze e il riscaldamento climatico”, servono “trattati internazionali di tipo nuovo, che consentano uno sviluppo durevole e sostenibile”.
I paradossi del voto popolare. Lasciamo Le Monde e torniamo al Corriere. Qui Sabino Cassese sottolinea che Trump ha ottenuto meno voti della Clinton eppure ha vinto. “La democrazia – scrive – è fondata su convenzioni rispettate nel tempo, che non vengono messe in gioco continuamente “come le formule elettorali italiane”. Intende criticare Renzi e Napolitano? Forse no perché conclude: “Democrazia non è il governo della maggioranza, ma solo quello della più forte minoranza”. Due (mie, dunque, modeste) obiezioni. La prima: gli Stati Uniti sono uno stato federale e ha persino senso che l’orientamento della maggioranza degli stati conti, in certi casi, più della scelta compiuta da un maggior numero di elettori. Invece se il 4 dicembre vincesse il No nelle urne ma il risultato fosse ribaltato dai Sì che arrivano dall’estero e per corrispondenza, io stesso non riconoscerei il risultato. Seconda osservazione: questa volta in America è la maggioranza che ha fatto irruzione nel sistema elettorale. Una maggioranza fatta dai troppi democratici che non hanno voluto votare per lo status quo e dai tanti “populisti” che si sono imposti al Grand Old Party.
E se Renzi si trumpizzasse? Per finire vi regalo la frase finale di un articolo scritto da Ilvo Diamante: “non mi sorprenderei se lo stesso Renzi tentasse di trumpizzarsi. Almeno un po”. Tanto più in caso di vittoria del No al referendum. In fondo, la “rottamazione” l’ha inventata lui. Potrebbe presentare Trump come un imitatore…”. Non vi sfuggirà l’ironico disprezzo o, se preferite, la cocente delusione che trasuda dalle parole del pur bravo analista. Va a finire che il gufo asfaltato, quello che aveva paragonato Renzi a un “idiot savant”, che non sa fare che una sola cosa, ma la fa bene in modo sorprendente (risolvere un’equazione impossibile, nel caso dell’idiot, vincere battaglie politiche congiunturali, in quello di Renzi), qui va a finire che il giornalista-senatore Mineo è quello che parla con più rispetto del segretario e premier.