Il grido dei sindaci: qui crolla tutto, Corriere. “Controlli in 200mila case”, Repubblica. “Terremoto, emergenza bambini”, la Stampa. I grandi giornali puntano ancora sull’emozione suscitata dal sisma, scelgono di raccontare la paura e lo sconforto piuttosto che analizzare proposte e risposte. Lo fanno, come si dice, per amor di patria? Può darsi. Forse anche perché sentono quanto molti lettori siano ormai stanchi della politica, convinti che l’Italia sia finita in posizione di stallo – bloccata nella palude, si sarebbe detto un tempo – e disperino che qualcuno sia in grado di trovare “la mossa del cavallo”, quella che cambia il corso della partita. Massimo Giannini di Repubblica scrive che “Padoan (nella lettera all’Europa) ha cifrato i maggiori costi per la ricostruzione in due decimi di Pil, cioè 3,4 miliardi”. Ma poi questa cifra non si ritrova fra gli investimenti previsti dalla finanziaria, dove, mal contati, per il sisma ci sono al massimo 600mila euro. Di conseguenza, scrive: “l’Europa teme che la vera “circostanza eccezionale” (per la quale il premier chiede la possibilità di fare più deficit) non sia il terremoto, ma sia il referendum. E cioè che quei 2,8 miliardi di fondi stanziati per il sisma più che a finanziare la messa in sicurezza di case chiese e scuole, servano a coprire le “mancette referendarie”: dalla quattordicesima ai pensionati al bonus alle mamme, dai fondi per il trasporto in Campania ai ponti sullo stretto in Sicilia”. Sospetto infame ma legittimo.
Il referendum rischia di saltare, il Giornale. “Fuga dalla sconfitta. Renzi e Napolitano vogliono rinviare il voto a primavera”, Il Fatto. Di questo ho già scritto nel caffè di ieri, un po’ prima che i giornali d’opposizione se ne accorgessero. E non intendo tornarci. Mi è infatti chiaro come Renzi sia ormai condannato a galleggiare nel fiume di parole, minacce e promesse con cui inonda televisioni e giornali. D’altra parte nessuno sembra avere la forza e il coraggio di indicare una strada diversa. I più si limitano ad aspettare che il premier si sfasci da solo, per poi azzannare qualche resto. L’unica buona notizia è che prosegue per forza propria la campagna per il No. Contro un progetto di riforma davvero impresentabile.
Parità tra Donald e Hillary, dicono i sondaggi. Constato come anche le persone che incontro, qui a New York, usino lo stesso tempo per lagnarsi di Trump e della Clinton. Un candidato che resusciterebbe l’America delle discriminazioni razziali, religiose, sessuali contro una candidata che rappresenta l’establishment, finanziata dalle Corporation e disposta a cancellare l’autocritica di Obama per rilanciare l’imperialismo americano verso il vicolo cieco della guerra fredda e la paranoia della dottrina Truman. Alla fine i miei interlocutori voteranno Hillary. Per una ragione, diciamo così, antropologica: perché lei somiglia molto più di Trump a quello che dovrebbe esser un primate evoluto, uno con cui si può prendere un caffè, con cui andare al cinema o al teatro. Temo tuttavia che molti poveri e tanti arrabbiati, pure né razzisti né sessisti, possano invece scegliere Trump. Per l’odio che la gente che sta sotto ormai nutre per quelli che stanno sopra. L’assurdo è che questo Trump è lo stesso delle tante Trump Tower che svettano sopra le nostre teste, costruite sui debiti e gli imbrogli tipici del nuovo capitalismo a scrocco. Purtroppo nell’ultimo quarto di secolo la sinistra ha reso le città più eleganti (e più care), ha garantito diritti e professato tolleranza, ma intanto ha spinto la povertà, il disagio e la rabbia fuori dalla scena. Al punto di dimenticare che quell’altro mondo esiste e di farne un numero. Come gli indicatori, che salgono e scendono, del prodotto interno lordo, della inflazione o della deflazione, dei nuovi assunti e dei troppi disoccupati. In fondo il partito democratico non ha voluto Sanders – che oggi forse avrebbe 10 punti di vantaggio su Trump – perché il “socialismo” di nonno Sanders parlava a quell’altro mondo e chiamava casta la sinistra che non si cura di chi sta in basso.
Fuochi d’artificio. New York Times spiattella nuove accuse di evasione fiscale contro Trump. L’FBI pubblica le carte sulla grazia che Bill Clinton concesse nel 2001 al finanziere Marc Rich, che avrebbe evaso 48 milioni di tasse e rischiava 300 anni di carcere. Rich ha poi ricambiato con donazioni alla fondazione, alla biblioteca Clinton e al partito. Veleni e scoop su due candidati che hanno stancato. Ma i leader repubblicani stanno battendo con ardore il paese da West a East. Non tanto per spingere Trump (che in molti preferirebbero sconfitto) ma per riagguantare la maggioranza alla Camera e, se possibile, strapparla al Senato. Lo stesso fanno Michelle e Barack Obama, Sanders e la Warren. Difendono Clinton e attaccano Trump: per salvare il partito democratico e farne un argine a Donald o un tutore per Hillary.