Magistratopoli. Il Giornale ripesca un vecchio cavallo di battaglia del berlusconismo davanti a due clamorosi rovesci della magistratura inquirente, l’assoluzione dell’ex presidente leghista del Piemonte Cota per le famose “mutande verdi”, il proscioglimento, perché “il fatto non sussiste”, di Ignazio Marino indagato per scontrini falsi e uso improprio della carta di credito del Comune Roma. Per la verità finché la magistratura si corregge, non manda in carcere persone innocenti e non butta la chiave, non si dovrebbe parlare di giustizia malata. Il sistema giudiziario, beninteso, sbuffa, arranca, ha il singhiozzo. Ma il problema principale lo troverete fuori dalle aule di giustizia, nelle sedi dei giornali, in quelle di governo, fra gli amministratori pubblici e gli imprenditori che vivono di pubbliche commesse, nelle sedi dei partiti e dei movimenti. Il problema è la crisi della classe dirigente in Italia.
Una classe dirigente che non sa decidere, non sa scegliere, sbagliare e correggersi, e si fa la guerra a colpi di atti giudiziari e strumentalizza qualsivoglia atto giudiziario. Davanti a una opinione corrente che fa il tifo per quel pezzo o per l’altro, quando non si ritrae dicendo che sono tutti corrotti, banalizzando la corruzione al rango di arredo, pezzo del panorama. Occhio alle date: il 7 febbraio del 1992 Andreotti firma a Maastricht il trattato sull’Unione europea, il 23 marzo Mario Chiesa racconta le tangenti e parte mani pulite, il 23 maggio la mafia ammazza Falcone. Una classe dirigente, già ferma da un ventennio, mette il pilota automatico (europeo), la mafia le chiede di rispettare gli antichi patti, le tangenti ai partiti diventano intollerabili ora che si vuole rientrare nei parametri. L’offerta politica si è poi divisa tra chi (la sinistra) si nascondeva dietro le toghe, sperando che lavorassero per lui, e chi (la nuova destra liberista) applaudiva i giudici solo finché colpivano pesci piccoli e qualche “mela marcia”, per chiedergli subito dopo di rientrare negli argini e gridare insieme “forza azzurri”. In seguito sono venuti i vaffa day e la rottamazione, ma ci si è continuati a nascondere ancora più dietro ogni inchiesta e ogni errore dei pubblici ministeri. Senza una proposta per cambiare il paese, accarezzando gli umori, usandoli, tirando a campare.
Marino assolto, ora sfida Renzi, la Stampa. “Io pugnalato, un solo mandante”, frase dell’ex sindaco che ha ritrovato il suo onore, che Repubblica sceglie come apertura della prima pagina. Politicamente quella di Marino è l’assoluzione che brucia di più. Perché il suo carnefice, l’uomo che ha approfittato dell’inchiesta giudiziaria per cacciarlo dal Campidoglio, arrivando a far dimettere 21 consiglieri eletti nella sua stessa lista, siede a Palazzo Chigi. Patetico Orfini che ora dice: “lo abbiamo cacciato per la sua incapacità”. No, il Pd ha voluto la testa di Ignazio Marino per stornare l’attenzione dalle inchieste sugli affari, dalle complicità con la cooperativa di Buzzi. Lo ha crocifisso in nome della “rottamazione”, rito ingannatore che denuncia il sintomo e conserva la malattia, smantella tutele del lavoro ed equilibri costituzionali, per nascondere il flop, in linea col passato, della propria azione di governo. Trasforma un referendum per approvare o cassare una (pessima) riforma della costituzione in “un derby tra futuro (Lotti e Boschi?) e vecchia guardia (“legata alla poltroncina”)”. Ed è naturale che Marino torni in politica proprio impegnandosi per il No. Ben tornato, Ignazio.
I 5Stelle restano la prima forza. Al ballottaggio? Vincerebbero. Dopo 3 mesi di risse e di errori a Roma, e dopo essere stati inchiodati, per questo, da tutti i mezzi di comunicazione di massa, il responso del sondaggio di Pagnoncelli ha dell’incredibile. M5S 30,3%. Pd 29,3%. Forza Italia + Lega + Fratelli d’Italia (ma si possono sommare?) 29,5%. E al ballottaggio il candidato di Grillo che sdruma Renzi 56,9 contro 43,1 e ancor più il candidato delle destre, 61,1 contro 38,9%. Questa sembra la china (rovinosa) lungo la quale sta slittando il premier segretario. Servono a poco l’aiutino dell’Europa, la quattordicesima promessa ai pensionati e l’ultimo cadeau annunciato, un bonus per le famiglie per cui si cercano 400 milioni. Così, udite udite, Francesco Bei (non proprio un cuor di leone) scrive sulla Stampa: “Invece di alimentare involontariamente la campagna del No con il miraggio delle sue dimissioni e l’addio alla politica (gli oppositori puntano più su questo aspetto che sul merito della riforma costituzionale), Renzi dovrebbe spiazzare tutti con un annuncio a sorpresa: me ne vado se vince il Sì. Soprattutto se vince il Sì. Nel senso: la mia missione era di cambiare l’Italia, ho ricevuto il mandato da Napolitano per questo, l’ho fatto, i cittadini l’hanno confermato con il voto, ora vi lascio in legato la Terza Repubblica, usatela bene. In un secondo toglierebbe ai suoi nemici l’arma di propaganda più forte, quella di voler instaurare una sorta di regime personale, ed entrerebbe nella storia”. Ponti d’oro a Matteo, se lascia!
La sterlina è crollata, dopo che Theresa May ha scelto la linea dura sul Brexit. Il presidente colombiano Santos ha preso il nobel per l’accordo di pace con le Farc, rigettato dagli elettori della Colombia. “La disuguaglianza costituisce un problema, perché riduce la mobilità verso l’alto” dice Obama nella sua lettera al futuro presidente. E aggiunge: “ci sono elites che danno l’impressione di vivere con regole diverse”. “La ripresa resta lenta”, prevede Draghi. Di conseguenza la BCE continuerà a finanziare le banche e a comprare titoli di stato.